Welfare

Un libro in carcere mi ha salvato

Il governo britannico ha vietato ai detenuti di ricevere libri in carcere, suscitando in poche ore la protesta di famiglie, cittadini e scrittori (17mila le firme su Change.org). Noi nella biblioteca del carcere di San Vittore ci siamo stati. Ecco come è andata

di Sara De Carli

In file ordinate sui loro scaffali o accumulati sui tavoli in alte pile dall’equilibrio precario, nella biblioteca del carcere di San Vittore anche i libri stanno stretti. Sedicimila volumi in una manciata di metri quadri, dice con orgoglio Francesco, che da un anno e mezzo, fino alle 14, qui fa il bibliotecario: «Facciamo 1.400 prestiti all’anno solo qui alla biblioteca centrale, direi 2mila in tutto il carcere». Su di loro veglia una gigantografia di suor Enrichetta Alfieri, l’«angelo di San Vittore» – «so solo che l’hanno beatificata da poco, non chiedermi altro», dice lui – e un disegno dal tratto netto e senza fronzoli: due mani legate, le manette spezzate, «vuoi evadere? Leggi un libro», c’è scritto sotto. «In effetti i romanzi sono richiestissimi, in particolare Wilbur Smith e Dan Brown», racconta Francesco. Si tormenta le mani nervoso, con quel “fuso” stampato appena sopra le nocche, una lettera per ogni dito, che stride con la lucidità con cui subito aggiunge: «Che poi il romanzo è l’unica forma reale di evasione, l’unica via reale per proiettarti altrove». Ma la lettura come evasione, a pronunciarla dentro a un carcere, è metafora troppo stinta e logorata. Scontata al punto da suonare bugiarda. E infatti Francesco racconta di un’altra realtà, inattesa e commovente: «Ma i libri più richiesti sono quelli di poesia». La poesia? Tra i detenuti? «Noi qui dentro abbiamo un bisogno fortissimo di comunicare con chi sta fuori, di esprimere con le parole emozioni e vissuti dolorosi. Ma trovare le parole è dannatamente difficile. Quindi ci si affida a chi lo ha fatto prima di noi, per trovare il modo di tirare fuori quelle parole. Ci deve essere un sistema. Se l’hanno fatto altri, c’è. La poesia diventa allora la scusa per un lavoro introspettivo, uno scavare a fondo, molto faticoso. Certo, poi qualcuno copia anche le poesie carrément…». Come, scusa? «Carrément, è francese. Le copia pari pari». Francesco ride, con gli occhi trasparenti, e in quella risata le sue mani fanno pace con le sue parole. Racconta del primo libro che ha preso in prestito lui, appena arrivato a San Vittore: Il preludio, di William Wordsworth, che «ha cambiato la mia visione sulla mia esistenza. Lui era completamente solo, ma nella sua solitudine ha trovato qualcosa a cui aggrapparsi, nella natura. Se ce l’aveva fatta lui, potevo fare altrettanto anche io».

Francesco è uno dei detenuti di San Vittore che ogni martedì partecipa al laboratorio di scrittura creativa, nella loro ora d’aria. Oggi sono in otto. Siamo nel terzo braccio del carcere, quello da poco ristrutturato, quello con più attività trattamentali, quello che gli altri detenuti guardano come “un altro mondo”. Un fiore all’occhiello. Appesi ai muri della stanza ci sono gli acquerelli dei detenuti: nature morte, paesaggi di mare, stelle di Natale, le classiche arance. Metà stranieri e metà italiani, siamo pari. Felpe, cappucci, jeans, tute, una fascia fra i capelli lunghi. Un signore sulla cinquantina, in pantaloni di flanella, camicia azzurra e girocollo blu, alza l’età media (e l’eleganza) del gruppo. In quattro hanno un quaderno, il signore dal maglione blu prende appunti tutto il tempo. «Dottoressa, buongiorno!», dicono quasi in coro. Questo è il secondo anno che Elena tiene un corso di scrittura a San Vittore. Prima ha lavorato anche a Opera, in un laboratorio teatrale. «La parola qui dentro non è un ornamento, ma uno strumento che risana le ferite. Queste persone in generale non hanno grande dimestichezza con le parole, ma mi stupisco sempre di come si avvicinino con timore e rispetto», dice. Un timore però che non è soggezione né paura.

I quaderni si aprono, fitti di parole sghembe, cancellature, anche di errori grammaticali. C’è un orgoglio inatteso, nel chiedere il permesso di leggere ciò che si è scritto. Leggono a voce alta, ci tengono a farlo loro, anche quando l’italiano incespica. Elena non esita a chiamarlo coraggio: «È un grande atto di fiducia. Mentre raccontano di sé, di esperienze che hanno fatto e che mai avrebbero pensato essere interessanti per qualcuno, si accorgono invece dell’attenzione e anche del coinvolgimento emotivo di chi ascolta. Scoprono la loro capacità di emozionare, di dare agli altri una emozione positiva e in questo modo si scoprono come “positivi” loro stessi. Di volta in volta acquistano fiducia in loro stessi, che poi è la prima leva su cui lavorare, perché qui dentro ovviamente è diffusa soprattutto la disistima, la percezione di essere un fallito».

[…] L’autobiografia qui dentro la farebbe da padrona. «Cerco di dare spunti per allontanarsene e acquisire dimestichezza con la fantasia e l’immaginazione», spiega Elena. Per farlo lavora con le immagini di quello che lei chiama “museo interiore”, facendoli lavorare come «archeologi alla ricerca delle immagini che si sono stratificate dentro ciascuno. Mi dicono “non abbiamo parole per le emozioni”, io dico “lasciatevi sorprendere da un’immagine che quell’emozione fa nascere dentro di voi e poi provate a descrivere quell’immagine. Spesso, in questo modo, avrete dato parola anche alle vostre emozioni”. E quell’immagine può essere poi un ottimo spunto per iniziare un racconto, il pretesto per un incipit». Basta poco.
 

L'articolo completo è stato pubblicato su Vita nel gennaio 2013. In allegato la testimonianza di Francesco, il bibliotecario del carcere di San Vittore.

Per firmare la petizione "Please urgently review and amend your new rules which restrict prisoners access to books and family items, in particular from children", clicca qui.


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