Welfare

Un giorno di sole a Ponte Galeria

Il viaggio nel Centro di Identificazione ed Espulsione di Roma tra privazioni, piccoli tentativi di normalità e tanta rabbia di tre giornalisti che lo raccontano a parole ed immagini

di Fabrizio Gala, Valentina Bascherini e Marco Marucci

di Fabrizio Gala, Valentina Bascherini e Marco Marucci (Porco Rosso Avant-Garde)

Il 24 ottobre 2012 è stata approvata alla Camera dei Deputati la ratifica del “Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti”, firmato a New York il 18 dicembre 2002. Il Protocollo prevede l’istituzione di un sottocomitato per la prevenzione – composto da esperti indipendenti eletti e facente capo al Comitato contro la tortura – e l’introduzione in ogni Stato di un meccanismo nazionale di prevenzione consistente in uno o più organi indipendenti, che assicurino la vigilanza nei luoghi in cui sono eseguite le misure restrittive della libertà personale.«Il mandato del sottocomitato– si legge nel testo – consiste sia nell’effettuare visite nei luoghi ove sono, o potrebbero essere, persone private della libertà personale e formulare agli organi competenti raccomandazioni concernenti la protezione contro la tortura e altre pene e trattamenti crudeli, inumani o degradanti, sia nel cooperare con i meccanismi nazionali. Ai meccanismi nazionali di prevenzione gli Stati devono riconoscere almeno la facoltà di esaminare regolarmente la situazione delle persone private della libertà, di formulare raccomandazioni alle competenti autorità e di presentare proposte e osservazioni sulla legislazione vigente in materia».
 

Le foto del Cie di di Fabrizio Gala, Valentina Bascherini e Marco Marucci

Solo un mese prima di questa storica assunzione di responsabilità da parte dello Stato Italiano abbiamo fatto visita al Centro di Identificazione ed Espulsione (CIE) di Roma per vedere e documentare attraverso la fotografia se le voci riguardanti le condizioni inumane e degradanti degli ospiti del centro fossero vere. È un giorno di sole, il 10 settembre, quando otteniamo il permesso di entrare, grazie anche alla mediazione del Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio e soprattutto dopo la revoca della circolare n. 1305 del primo aprile 2011 dell’allora Ministro Maroni, che vietava l’ingresso alla stampa nei centri di identificazione e espulsione e nei centri di accoglienza per richiedenti asilo (CARA).

Quello di Ponte Galeria è uno dei 13 CIE sparsi per l’Italia, il più grande in quanto a ricezione: 354 posti. Il centro presenta l’aspetto di una struttura penitenziaria, e come quasi tutte le carceri si trova in periferia, lontano dal cuore vivo di Roma. Lontano da sguardi e orecchie indiscrete, in casermoni evidentemente militarizzati hanno sede l’Ufficio Immigrazione della Questura, un’aula giudiziaria, una sala adibita alle visite ed i servizi della Cooperativa Auxilium che dal 2010 ha sostituito la Croce Rossa Italiana nella gestione della struttura (mediazione culturale, primo soccorso, biblioteca, mensa, campo sportivo, etc.).
Una serie di cancellate alte circa 4 metri rinforzate in ogni angolo per evitare i numerosi tentativi di fuga sono il biglietto da visita del CIE di Ponte Galeria. Dentro queste cancellate i detenuti, divisi tra braccio maschile e femminile, passano la maggior parte del tempo che gli rimane aspettando di essere rimpatriati.
 

Le foto del Cie di di Fabrizio Gala, Valentina Bascherini e Marco Marucci

Ufficialmente il motivo per cui circa 160 persone, di cui un terzo sono donne, sono recluse all’interno del centro, è la “detenzione amministrativa”: pena assegnata  agli stranieri trovati senza permesso di soggiorno e già invitati ad allontanarsi dal Paese. Tuttavia lo scopo di questa detenzione è, in prima istanza, quello di stabilire l’identità dello straniero ed accertare l’eventuale reato di immigrazione clandestina, per ordinarne, infine il rimpatrio forzato.  Nel 2011 la percentuale degli ospiti del centro realmente espulsi è stata pari al 39%, mentre per il restante 61% la situazione non è chiara.

Un Dirigente delle Prefettura guida la nostra incursione in questa sorta di limbo carcerario e si raccomanda di non fotografare né gli ufficiali di pubblica sicurezza né i volti degli ospiti del centro, a meno che questi ultimi non diano l’autorizzazione. Una volta percorso il corridoio dove si affacciano gli uffici giudiziari e la sala per le visite usciamo all’aperto: la luce abbagliante del sole si riflette sulle sbarre di metallo, alte e storte alla fine, che dividono il braccio maschile da quello femminile. Dalla metà del comprensorio riservata alla parte maschile provengono grida accorate, è un ragazzo del Maghreb che urla:  nella mattinata si sono verificati degli incidenti, come spesso succede, e per questo probabilmente non potremo visitare il braccio maschile.

Fotografiamo il tutto con dovizia di particolari, arriva il direttore dell’Auxilium ed entriamo con lui nella sezione femminile. Il cortile e’ diviso in sottosezioni con alte cancellate, all’interno delle quali si trovano gli alloggi delle ospiti ed i rispettivi bagni. Dentro ogni cancellata le ospiti sono divise per etnie, ed il direttore si affretta a raccontare come siano all’ordine del giorno  episodi di intolleranza tra ragazze provenienti dall’Est Europa e Nigeriane.

Le foto del Cie di di Fabrizio Gala, Valentina Bascherini e Marco Marucci

È l’ora di pranzo e quasi tutte le ragazze consumano il pasto all’aperto, appena entriamo alcune di loro si avvicinano ed iniziano a raccontare la loro storia, a lamentarsi, mentre le altre se ne stanno in disparte. Proprio là accanto alle celle c’è un campo di pallavolo (unica attività ricreativa insieme ai corsi di danza, una piccola biblioteca ed una stanza adibita a coiffeur) e come prima cosa chiediamo alle ragazze  se il campo venga effettivamente usato.

Dicono che manca il pallone e che quindi è impossibile giocare.  «Di solito la palla se la ruba qualche ragazza per portarsela in stanza», chiariscono i responsabili dell’Auxilium, «ma quanto incide una sacca di palloni in una struttura che costa 41 euro al giorno per ospite e milioni di euro l’anno? Ci viene da chiederci.
Una donna serba di etnia rom si ferma a parlare, racconta di esser stata fermata mentre cercava di uscire dall’Italia per tornare a casa, e mostra il suo alloggio nello stanzone da sei letti lamentandosi che nel bagno d’acqua calda non ce n’è. Ai lati del cortiletto sono appese delle amache fatte con lenzuola monouso,  pare siano opera della ragazze provenienti dalla Cina,  che con quelle lenzuola intrecciate sono delle maghe e sanno fare di tutto (ed infatti una delle ragazze di prima aveva una borsetta fatta allo stesso modo..).
 

Le foto del Cie di di Fabrizio Gala, Valentina Bascherini e Marco Marucci

Parliamo con queste donne, sono tutte senza futuro, non hanno molto da fare nel CIE e alcune guardano la tv (è la cosa che più colpisce appena si entra nei loro alloggi, una tv al plasma bella grossa attaccata al muro). Di nigeriane se ne vedono poche, ci dicono che sono dentro gli alloggi. Sappiamo che sono la maggioranza tra le recluse e che sono spesso vittime di tratta; con difficoltà, una volta raccolte le loro testimonianze e denunciati gli sfruttatori, riescono ad ottenere lo status di vittime di tratta e sfruttamento e ad uscire dai CIE una volta per tutte.

Passiamo oltre ed andiamo a vedere alcune sale tra cui una adibita a coiffeur dove alcune ragazze sono solite farsi le treccine a vicenda, poi la biblioteca, con solo libri di terza mano per lo più in italiano, inglese e spagnolo, alcuni testi sacri e molti disegni che sembrano fatti dai bambini. I minori qui non possono entrare e anche per le madri con figli si prospetta un iter diverso. Ci chiediamo se quei disegni infantili siano davvero delle recluse.

Le foto del Cie di di Fabrizio Gala, Valentina Bascherini e Marco Marucci

Entriamo nella sala mensa: alcune sedie di plastica sono state divelte con rabbia e si sentono di nuovo le grida provenienti dal braccio maschile che si fanno più vicine. Prima di visionare l’infermeria e la sala di ascolto psicologico visitiamo il campo di calcetto dove abbiamo uno scambio veloce di battute con i responsabili dell’Auxilium sull’uso da parte degli ospiti del CIE del campo.  Il regolamento interno, infatti, prevede che agli ospiti vengano sottratti i lacci delle scarpe per scoraggiare eventuali tentativi di fuga, ma come fanno giocare a calcio senza lacci? E la risposta, quanto mai pronta e surreale: «Quando entrano  nel campo gli diamo noi le scarpe per poi ritirarle quando escono».

È questa la sintesi ultima di un CIE: costringiamo delle persone in una prigione grande come un campo di calcio, gli offriamo dei servizi minimi per sopravvivere come un paio di scarpe di seconda mano,  per poi ritirarglieli quando il loro tempo in questo Paese scade. A questo punto non rimane visitare il braccio maschile. Il direttore di Auxilium consiglia di non farci vedere per non infiammare immediatamente gli animi, e così passiamo trafelati verso il cortile esterno della sezione maschile. Il direttore ci mostra con orgoglio dei pannelli montati sui tetti per impedire agli ospiti di scalare i muri e scappare dal centro, poi ci porta nel cortile della sezione maschile e lì appena i reclusi vedono le nostre macchine fotografiche la rivolta tenuta a bada dai carabinieri del centro si infiamma.

Un Maghrebino, a cui il giudice di pace ha da poco confermato la sua detenzione amministrativa per 60 giorni,  urla chiedendo di parlare con noi,  invitandoci ad entrare a vedere le condizioni in cui sono costretti a vivere; le sue urla richiamo molti altri trattenuti, tra cui un uomo senza maglietta sul cui torace imperversano una serie infinita di tagli e cicatrici come testimonianza della tensione e del disagio sociale all’interno di queste alte cancellate. La situazione si scalda parecchio, nel frattempo il Maghrebino continua ad urlare la sua storia, incurante del resto, e noi apprendiamo come egli sia stato prelevato dal suo banco di frutta, e  che non potrà partecipare alla sanatoria che il governo ha predisposto per la fine del mese per la regolarizzazione degli immigrati senza permesso di soggiorno.  

Arrivano i carabinieri a cercare di sedare la situazione e noi ci allontaniamo prima che la protesta degeneri. Usciamo, ed è come se si interrompesse un film prima di vederne la fine.
 


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