Cultura
Un Dio impotente, un Dio vicino
Una riflessione dinanzi all'immagine apocalittica di Papa Francesco, solo, in piazza San Pietro. «Non è certo Dio a “volere” questo male che ci travolge impotenti. Ed è anzi a lui che dobbiamo rivolgerci, ci dice il Papa, per lottare contro il male. Insieme. Perché nessuno si salva da solo, neppure Dio. Un Dio abbandonato e solo, che nella sua tragica impotenza possiamo però sentire autenticamente vicino»
«Venuta la sera» (Mc 4,35). Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi».
Il testo dell’omelia pronunciata venerdì da Papa Francesco per la benedizione urbi et orbi, le cui immagini autenticamente “apocalittiche” segneranno in maniera indelebile questo tempo storico che stiamo vivendo, andrebbero rilette con attenzione, nella loro semplicità. Poiché la preghiera di Francesco è, ancora una volta, una “preghiera semplice”, non un discorso teologico forbito. Una preghiera capace di evocare in noi la stessa semplicità e immediatezza della parola evangelica, lasciandoci tutti disarmati e muti. Parole che evocano un vuoto e un silenzio. Quello stesso immenso vuoto e silenzio che circondava il Papa, mentre scendeva la sera su una piazza quanto mai desolata e fredda. Invocazione apocalittica, non commento moraleggiante come i tanti che siamo ormai abituati a sentire nelle nostre chiese. Perché il tempo che stiamo vivendo richiede l’autenticità di una parola e di una fede che sappia finalmente rivelarsi nella sua nudità, e farsi invocazione. Questo dice il Papa.
«Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: "Siamo perduti"».
Questo, niente di altro. Nessun “fllagello” inviato da un Dio dispettoso e vendicativo destinato tragicamente ad “educarci” attraverso il male. Non è questo lo sfondo teologico di riferimento di Francesco. È piuttosto quella “theologia crucis” che faceva denudare lo stesso “poverello di Assisi”, dinanzi ai suoi crocifissi lignei, piagati, come quello dinanzi al quale Francesco ha voluto offrire la sua invocazione. Planetaria, molto “scenografica” certo, come è stato da molti notato. Ma di una scenografia che non aveva purtroppo niente di fittizio e di virtuale. Laddove il suono delle campane si confondeva sinistramente con il lamento assordante delle ambulanze. Scenografia apocalittica, certo. Ma capace in quanto tale di evocare proprio la drammaticità di quel dramma originario al quale è sospesa la fede ebraico-cristiana, da sempre.
«Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (v. 38). Non t’importa: pensano che Gesù si disinteressi di loro, che non si curi di loro. Tra di noi, nelle nostre famiglie, una delle cose che fa più male è quando ci sentiamo dire: “Non t’importa di me?”. È una frase che ferisce e scatena tempeste nel cuore. Avrà scosso anche Gesù. Perché a nessuno più che a Lui importa di noi. Infatti, una volta invocato, salva i suoi discepoli sfiduciati».
Non è certo Gesù a “volere” quindi questo male che ci travolge impotenti. Ed è anzi a lui che dobbiamo rivolgerci, ci dice il Papa, per lottare contro il male. Insieme. Perché nessuno si salva da solo, neppure Dio.
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo. Così avrebbe commentato, credo, anche Sergio Quinzio, che nel suo ultimo libro, Mysterium Iniquitatis, immagina un’altra scena apocalittica, in San Pietro. Laddove un altro Papa, vecchio stanco e deluso, pronuncia l’ultimo dogma prima della fine: il dogma del fallimento del cristianesimo nella storia. E cosa altro ci dicono, se non questo, le parole accorate di Francesco?
«La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato».
Scende la sera su San Pietro. Nel vuoto e nel silenzio risuonano solo le campane della Basilica e le sirene delle ambulanze. In quel vuoto e in quel silenzio riecheggiano tutte le nostre paure, insieme a questa consapevolezza di essere ormai del tutto spogliati da ogni nostra certezza e protezione. Quella situazione di ultimo abbandono che lo stesso Gesù, nel grido dell’ora nona, ha vissuto e sofferto, invocando, anche Lui il suo De profundis. Un Dio abbandonato e solo, che nella sua tragica impotenza possiamo però sentire autenticamente vicino.
E mi viene in mente allora un’altra scena, di un’altra ancor più drammatica apocalisse.
Un giorno, che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell’appello. Tre condannati incatenati, e fra di loro il piccolo pipel, l’angelo dagli occhi tristi…
I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.
– Viva la libertà! – gridarono i due adulti.
Il piccolo, lui, taceva.
– Dov’è il Buon Dio? Dov’è? – domandò qualcuno dietro di me.
A un cenno del capo le tre seggiole vennero tolte.
Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramonatava…
Dietro di me udii il solito uomo domandare:
– Dov’è dunque Dio?
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
– Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…
Elie Wiesel, La notte.
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