Un giocatore si accascia all’improvviso a pochi metri dall’area di rigore. Cade a testa in giù, si dibatte, prova a rialzarsi, ricade, in preda a convulsioni. Non sta simulando. Nessuno lo ha colpito, non ci sarà mai, per lui, la prova televisiva. L’arbitro era lontano dall’azione. Un medico, della squadra avversaria, intuisce il peggio e corre verso il ragazzo. Da lì in poi tutto il resto diventa un’opinione. Tranne la morte.
Così, in un pomeriggio uggioso, è finita la vita di un calciatore. Non un grande campione, non un “top player”. Un onesto e simpatico professionista, passato a gennaio dall’Udinese al Livorno. Dalla “cantera” italiana dei grandi talenti alla serie B. Si chiamava Morosini. Piermario. Sì. Piermario Morosini. Da Bergamo. 25 anni. Orfano. Padre e madre morti, e anche un fratello disabile. E’ rimasta solo la sorella, adesso. Nessuno di noi lo sapeva, prima di oggi. Adesso tutti lo piangiamo, come un amico caro che scompare all’improvviso.
E’ morto così, forse gli ha ceduto il cuore, forse il cervello. Lo sapremo dopo l’autopsia. Una sequenza televisiva ripetuta in slow motion, e poi quasi rimossa, ma non troppo. L’imbarazzo nel raccontare la morte in diretta. E poi la retorica, il mestiere, l’astuzia, la ricerca dell’audience, del colpo ad effetto. Morosini è appena morto, e onestamente è ancora difficile capire perché. Ma tutti sanno qualcosa di importante. All’improvviso nei talk show dei pallonari, pubblici e privati, si inventano competenze grottesche.
Il defibrillatore doveva essere usato subito. Doveva essere lì. Pronto all’uso. L’ambulanza non è entrata in campo per colpa di un’auto dei vigili urbani di Pescara che bloccava l’ingresso di emergenza al campo (vero). E’ intervenuto il medico del Pescara, tutti si mettevano le mani nei capelli. Ma i giornalisti negli studi televisivi, ore dopo, sono sicuri: sanno quello che andava fatto, e vivisezionano l’accaduto esattamente come se si trattasse della moviola per un rigore negato. Cinicamente moralisti e sagaci.
Già, perché nel frattempo è saltato il grande show del sabato e della domenica, con un possibile danno di audience quasi irreparabile. Le partite italiane non si giocano, perché una volta tanto è prevalso il buon senso, e un minimo di umanità. Si può discutere all’infinito se questa è ipocrisia oppure sincera partecipazione al dolore per un lutto che fa male allo stomaco. Ma intanto il circo si è fermato, almeno per un attimo.
In realtà nessuno conosce le regole, le procedure corrette. Nessuno se ne è preoccupato, poche settimane fa, quando analogo malore è accaduto su un campo inglese, fortunatamente senza il morto. Allora, forse, sarebbe stato il momento di una bella inchiesta per verificare come funziona, da noi, l’emergenza sanitaria sui campi di calcio. Ma nessuno, mi pare, lo ha fatto, e neppure lo ha pensato. Ma adesso, stasera, sabato sera, tutti pontificano e accusano, vivisezionando le notizie, pronti a scagliarsi come sciacalli su uno straccio di testimonianza capace di avallare l’ipotesi, il retropensiero, l’idea di sottofondo.
Che è sostanzialmente da sepolcri imbiancati: in Italia si gioca troppo, lo stress è elevatissimo, i calciatori sono spinti a prestazioni eccessive, i controlli non sono costanti ed efficaci, e poi in campo nessuno è pronto a fronteggiare l’emergenza. Qualcuno dice: troppi casi in questi anni. Poi si scopre che in Italia si contano, i malori e i morti, sulle dita di una mano, perché da noi le regole ci sono, e i controlli pure. Ma “normalizzare” la notizia e ricondurla, per quel che al momento sappiamo, nell’ambito di una tragica fatalità rispetto alla quale, forse, si poteva fare qualcosa di meglio, ma senza alcuna sicurezza che la vita di Morosini sarebbe stata in salvo, sarebbe troppo banale, stupido, poco professionale.
Meglio cercare lo scoop a tutti i costi, meglio dimostrare di saperla lunga. Morosini è morto, e ora sappiamo molte cose della sua vita, che quasi sicuramente avremmo ignorato se Piermario avesse continuato a vagare da una squadra all’altra, per guadagnarsi onestamente, senza trucchi, da vivere come calciatore, fra serie B e serie A. Un bravo ragazzo, simpatico e allegro, tradito dal cuore o da una vena che arriva al cervello. Ma di lui, dei suoi pensieri, delle sue emozioni, del dolore che può aver minato il suo cuore, perdendo in pochi anni padre, madre e fratello, ben poco interessa, se non per il “coccodrillo” di circostanza, il pezzo di colore che va a completare la scaletta. Quello che conta, adesso, è ben altro. Far vedere quanto si è bravi, quanto si è cattivi, duri, spietati, nel condurre il programma della sera, fra comprimari compiacenti e comparse stanche. Questa sera si recita a soggetto. Domani, domenica, tristezza e noia recheran l’ore.
Riposa in pace, Piermario Morosini. Non era questo il modo per diventare famoso. Riposa in pace. Speriamo di non dimenticarti troppo presto. Sarebbe l’ultimo insulto.
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