È un po’ di tempo, lo ammetto, che trascuro questo Blog e c’è un motivo. Più passano i giorni e più avverto una sorta di rassegnazione rispetto alle vicende africane. Ad esempio ieri le agenzie di stampa hanno battuto la notizia del bombardamento compiuto venerdì scorso dall’aviazione sudanese nel Bahr el Ghazal e più precisamente nella valle del fiume Kiir, nel settore sudoccidentale del Paese. Aumenta dunque la tensione in Sudan, in vista della consultazione referendaria, in programma il prossimo gennaio, per sancire l’auto determinazione delle regioni meridionali. Intanto, sempre in questo grande Paese africano, la situazione rimane drammatica nel Darfur per la mancanza di volontà politica a risolvere una guerra civile che sta causando morte e distruzione. Come se non bastasse, sul versante opposto del continente africano, lunedì 8 novembre, l’esercito marocchino ha attaccato un accampamento sahrawi alle porte di El Ayoun, capitale del Sahara Occidentale. Prosegue dunque ad oltranza il braccio di ferro tra il governo marocchino e il Fronte Polisario che invoca un referendum per l’autodeterminazione del popolo sahrawi. Dal canto suo Rabat insiste sulla proposta, avanzata nel 2007: un’ampia autonomia amministrativa, sotto la sovranità marocchina. E cosa dire del settore nordorientale della Repubblica Democratica del Congo dove i ribelli ugandesi dell’Esercito di Resistenza del Signore (Lra) continuano a fare il bello e cattivo tempo, sconfinando impunemente sia nella Repubblica Centrafricana come anche nella regione sud sudanese dell’Equatoria? Nel frattempo, la Somalia continua ad essere in preda alla guerra civile e la propria capitale, Mogadiscio, è ridotta ad un cumulo di macerie. Ma a pensarci bene anche in altri Paese, come il Madagascar e la Guinea, lo scenario politico interno è caratterizzato da una forte instabilità. Per carità qualche segnale positivo viene dalla Costa d’Avorio dove, il prossimo 28 novembre, dovrebbe svolgersi il secondo turno delle agognate presidenziali.
Il problema di fondo è che sono ancora molte le vecchie e nuove oligarchie che condizionano la politica africana, sia a livello continentale (rappresentate all’interno dell’Unione Africana), come anche sul piano regionale e nazionale. Sono questi signori che, non solo fanno quattrini, ignorando le necessità della loro gente, ma rispondono ai diktat dei vari potentati stranieri, cinesi in primis. Da rilevare che la strategia di Pechino sta acuendo in maniera esponenziale la corruzione delle leadership africane, con l’intento strategico di ottenere il monopolio delle materie prime africane, incluse le ricercatissime fonti energetiche. E i cinesi sono davvero dappertutto, al punto che qualcuno ha scritto che di questo passo l’Africa sarà interamente colonizzata dall’impero del Drago. L’Europa, purtroppo, non si sta comportando un granché meglio. Bruxelles vorrebbe imporre ai Paesi africani gli “Economic Partnership Agreements”, in italiano “Accordi di Partenariato Economico”, meglio conosciuti con l’acronimo Epa. Iscritti nell’articolo 37 dell’Accordo di Cotonou del 2000, gli Epa sono accordi di “libero-scambio” delle merci con l’obiettivo di promuovere l’integrazione degli Stati Acp nell’economia mondiale, nel rispetto delle loro scelte politiche e delle loro priorità di sviluppo, contribuendo all’eradicazione della povertà e incoraggiando così quello che in gergo tecnico si chiama “sviluppo sostenibile”. Detti così, questi Epa potrebbero sembrare davvero il toccasana ai problemi del Sud del mondo, ma non è proprio oro tutto quello che luccica. Nel febbraio del 1975, gli allora 9 Paesi membri della Comunità Europea (Cee), e 46 Acp siglarono una Convenzione che segnò, almeno idealmente, una svolta epocale nei rapporti tra Nord e Sud del mondo. In sostanza i prodotti dei Paesi Acp, prevalentemente materie prime, potevano essere esportati nell’ambito Cee senza essere sottoposti ad alcuna forma di tassazione all’entrata; questa regola non valeva invece per i prodotti europei esportati nei Paesi Acp che dovevano al contrario sottostare ad un regime fiscale di tipo protezionistico. L’intesa di Lomé, è bene rammentarlo, avvenne proprio quando l’attenzione della comunità internazionale era concentrata sulla creazione di un nuovo ordine economico mondiale che avrebbe consentito ai Paesi poveri di debellare la piaga del sottosviluppo. Oltre alla regolamentazione degli scambi tra Cee e Paesi Acp attraverso un regime di libero accesso in Europa con il sistema delle preferenze commerciali “non reciproche”, la Convenzione riguardava anche aspetti legati alla cooperazione agricola e lo sviluppo rurale, lo sviluppo dell’industria e dei servizi, la cooperazione culturale, sociale e regionale. Storicamente parlando, comunque, sarebbe più corretto parlare di Convenzioni di Lomé, al plurale, perché la Convenzione è stata poi rinnovata diverse volte: Lomé II (1980), Lomé III (1985), Lomé IV (1990), Revisione di Mauritius (1995). I partecipanti erano gli allora nove Paesi membri della Comunità Europea, e 46 paesi Acp. Sta di fatto che verso la fine degli anni ’90, la filosofia di Lomé venne messa profondamente in discussione da alcuni economisti fautori del liberismo. Essi sostenevano che gli scambi economici privilegiati fossero in realtà una trappola, perché mantenevano i paesi Acp in una condizione di dipendenza e di bisogno. Questo approccio prevalse soprattutto nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) dove alcuni dei protocolli agricoli allegati alla Convenzione vennero dichiarati illegali e dunque incompatibili con l’ordinamento delle regole internazionali di commercio. Ecco che allora nel 2000 si pervenne all’Accordo di Cotonou il quale gettò le basi per una rinegoziazione dei rapporti commerciali tra Unione Europea (Ue) e Acp. Tali trattative sono iniziate nel 2002 e si sarebbero dovute concludere nel giro di cinque anni con la firma degli Epa; cosa che, come vedremo più avanti, non è ancora avvenuta.
La “vexata et tormentata quaestio” è rappresentata soprattutto dal fatto che l’Europa chiede ai Paesi Acp di eliminare tutte le barriere all’entrata su merci, prodotti agricoli e servizi provenienti dall’Ue, mettendo fine alla non reciprocità garantita dalla Convenzione di Lomè. Libero scambio, quindi, su tutti i fronti, come richiesto dalle norme del Wto, con l’idea che la riduzione delle barriere commerciali incentiverà la crescita economica dei Paesi in via di sviluppo e contribuirà allo sradicamento della povertà. Come era prevedibile, soprattutto i Paesi africani, hanno contestato duramente questo indirizzo. La motivazione è rintracciabile nella convinzione che gli Epa, con il ribasso progressivo delle tariffe doganali all’importazione dei prodotti europei, vadano a provocare un danno irreversibile alle già precarie economie nazionali africane. Gli europei, da parte loro, hanno l’urgenza di concludere gli Epa in tempi rapidi vista l’importanza strategica del negoziato, soprattutto per i rincari delle materie prime. Prodotti questi che, com’è noto, lievitano di giorno in giorno, di pari passo alla corsa da parte soprattutto di Cina, India e Brasile per accaparrarsi le risorse energetiche del continente africano. Se da una parte è vero che la Ue si attesta al primo posto nelle sovvenzioni economiche all’Africa – circa il 52% dell’ammontare ufficiale degli aiuti allo sviluppo per il continente – dall’altra è importante promuovere sinergie per implementare, oltre allo sviluppo, una politica che possa dirsi reale, cioè in grado di migliorare le relazioni tra i due continenti, rendendole fattivamente eque e paritetiche. L’obiettivo finale, d’altronde, a livello di cooperazione, dovrebbe essere quello di superare le barriere sociali ed economiche africane, consentendo ai governi locali di far fronte adeguatamente alle sfide imposte dalla globalizzazione dei mercati. In sostanza, non è più possibile disgiungere il tema della “governance democratica” o quello del rispetto dei diritti umani, dalle questioni relative al commercio, alla migrazione, o all’occupazione. I governi africani continuano a ripetere alle autorità di Bruxelles che i proventi dei dazi doganali costituiscono una gran fetta del proprio Prodotto interno lordo (Pil) e la loro eliminazione causerebbe enormi perdite economiche. Ma soprattutto è difficile pensare che i prodotti africani, in particolare quelli finiti, possano competere internazionalmente con le merci provenienti dalla Ue o da altri Paesi industrializzati. Dal punto di vista europeo, invece, la firma di un accordo, così come proposto, aprirebbe nuove aree di commercializzazione per i propri prodotti, ma anche per gli investimenti e i servizi, ovvero un’ottima possibilità per l’ampliamento dei mercati del vecchio continente. Una cosa è certa: mentre i vantaggi per l’Europa sono evidentissimi, in termini ad esempio di “privatizzazioni”, se l’Africa dovesse accettare gli Epa si troverebbe costretta a competere commercialmente contri i giganti dell’economia mondiale senza avere i denari e gli strumenti per misurarsi con gli avversari. Questo, in effetti, sta già avvenendo, grazie soprattutto al sistema protezionistico di cui è fautrice la Francia. Nell’Africa Occidentale, ad esempio, già oggi, se si visitano i mercati ortofrutticoli locali, si noterà che i pomodori europei, godendo del sostegno dei sussidi governativi consentiti dall’Ue, costano meno di quelli prodotti localmente. Un modo questo non solo per disincentivare l’agricoltura africana, ma per indebolire ulteriormente l’agricoltura africana. Nonostante la volontà della Commissione europea di realizzare questi accordi a livello regionale da siglare entro dicembre 2007, ad oggi solo i Paesi caraibici hanno firmato i cosiddetti “Epa completi”. Al fine di incentivarne l’accettazione, Bruxelles ha previsto una sorta di fondo compensatorio di 27 miliardi di euro per i 77 Paesi Acp, su un periodo di dieci anni. Ma chi può realmente valutare in Africa le perdite derivanti dalle nuove regole commerciali? Come ha rilevato Mamadou Cissokho, presidente onorario del “Roppa”, la Rete delle organizzazioni contadine e dei produttori agricoli dell’Africa occidentale,queste forme di partenariato economico tanto care al Wto, determinino non solo lo smantellamento dei mercati regionali africani (dalla Cedeao/Ecowas nell’Africa Occidentale, al Sadc in Africa Australe; dall’Eac nell’Africa Orientale, alla Cemac nell’Africa Centrale), ma la svendita, nel loro complesso, delle ricchezze del continente. Ecco perché prima di firmare accordi di libero scambio, Epa inclusi, i governi africani dovrebbero essere messi nelle condizioni di metabolizzare le riforme globali perseguendo, attraverso un sostegno più coerente ed equo dei Paesi industrializzati (G 20) l’integrazione economica, sociale e culturale a livello regionale. In altre parole, bisognerebbe prima far crescere economicamente organismi come la Cedeao/Ecowas e poi cominciare a parlare di Epa, negoziando con questi organismi regionali presenti in Africa. Purtroppo sia Bruxelles che Pechino fanno orecchie da mercanti. È per questo motivo che la società civile africana, nelle sue molteplici componenti associative e anche del settore privato, rivendica il ruolo dei cosiddetti “Attori non statali” nello studio e nell’applicazione degli accordi di partenariato internazionale, da anni al centro delle accese discordie tra l’Africa e l’Europa.
Ha proprio ragione Benedetto XVI quando dice che è necessaria “una revisione profonda del modello di sviluppo globale” e “prendere sul serio la crisi economica di cui si è occupato anche in questi giorni il G20”. Questo l’augurio del Papa durante l’Angelus di domenica scorsa. Il Papa ha lanciato un appello per evitare che “le economie più dinamiche” siano tentate di “ricorrere ad alleanze vantaggiose” ma “gravose per gli Stati più poveri”, tali da prolungare “situazioni di povertà estrema di masse di uomini” e impoverimento di “risorse naturali”. La speranza del Pontefice è che i Paesi “di antica industrializzazione” abbandonino “stili di vita improntati a un consumo insostenibile” che danneggi l’ambiente e i poveri. Tutto vero, ma finora i G20 danno l’impressione di fare orecchie da mercante. Una cosa è certa: “dobbiamo smetterla di elaborare ciascuno separatamente – come scrive saggiamente l’intellettuale congolese Jean Leonard Touadi – un sapere sull’altro che non tenga conto dell’incontro ormai avvenuto in condizioni drammatiche, ad esempio, tra Europa e Africa”. Insomma si tratta di realizzare un decentramento narrativo nel grande libro dei saperi umani, ossia imparare a guardare le cose una volta tanto dal punto di vista dell’altro se vogliamo approdare con piena consapevolezza “all’appuntamento del dare e del ricevere” auspicato dal poeta senegalese Léopold Sédar Senghor. Un incontro che sta davvero a cuore su scala planetaria alla società civile, alle chiese cristiane e in particolare al mondo missionario. Ecco perché bisogna continuare a sperare guardando al futuro, “in nero e bianco”.
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