Mondo

Un Conflitto Fuori Onda

di Marco De Ponte

Conflitto che vai, media che trovi, viene da dire. I dati del nuovo rapporto della Caritas, confermano che esiste un gap informativo su alcune regioni del mondo, seppure interessate da guerre, violenza e conflitti: l’87,9% dell’informazione riguarda le guerre note, a scapito dei conflitti dimenticati. Come la regione dei Grandi Laghi e in particolare la Repubblica Democratica del Congo, dove in questi giorni si è riaccesa la violenza. La guerra di sempre, una guerra per sempre.

Uomini, donne e bambini, nella regione Nord Kivu, in fuga; 760.000 sfollati dall’inizio dell’anno, secondo i dati ONU . Da alcuni giorni, i nostri colleghi di ActionAid non possono più portare avanti il proprio lavoro e le attività di progetto consuete. Tutto sospeso. L’ufficio di Goma in modalità “ibernata”, cioè il personale è costretto a lavorare da casa e a mantenere un low profile, mentre fuori imperversa la violenza.

Un’ennesima catastrofe umanitaria annunciata: perché la guerra nella regione va avanti da quasi venti anni, senza che ci sia un’azione decisa da parte dell’Unione Africana e della comunità internazionale, e dei Governi europei, compresa l’Italia, per trovare soluzioni di lunga durata. Una regione dove lo Stato, il governo sono assenti, e quindi dove mancano l’accesso all’acqua potabile, un tetto seppure fragile come quello di una tenda da profugo sulla testa, il cibo. Ieri il mio collega Adelin Ntanonga, di ActionAid in Congo mi ricordava proprio il sostegno che nei mesi passati abbiamo dato a 17.000 sfollati rientrati nei villaggi di Kamuronza e Rutshuru e alle 35.000 persone che hanno ricevuto assistenza e beni di prima necessità nell’area di Walikale: un lavoro che ora appare compromesso.

Il conflitto come in tutti i casi in cui la violenza fa da padrona, ha un impatto ancora maggiore sui più poveri e le comunità già marginalizzate, soprattutto donne, giovani ragazze e bambini. A due giorni dalla giornata internazionale contro la violenza sulle donne, va ricordato che questa area del paese è quella dove ci sono percentuali altissime di violenza perpetrata  proprio a danno di donne e bambini. Chiaramente il problema non è solo rendere la guerra meno brutale per le donne: non è possibile separare la violenza contro le donne dalla più generale diffusione della violenza incontrollata contro i civili, che caratterizza un gran numero dei conflitti in corso. Il problema è quello di garantire sicurezza e protezione della popolazione civile. E questo riapre la questione del ruolo delle missioni di peacekeeping (nel Kivu ci sono 6700 soldati, la MONUSCO). Il settore del mantenimento della pace nel continente africano attraversa una fase critica da anni e il processo del suo ripensamento all’interno del sistema ONU – e quindi anche della scarsità di risorse delle istituzioni africane – è iniziato già negli anni 90. Ma sembra una matassa dalla quale non si riesce a venirne a capo.

Tra le altre cose, fu proprio Romano Prodi –messo dalle Nazioni Unite a capo di un gruppo di esperti chiamato a riformare le missioni di pace nel continente,  a stilare un rapporto, a fine 2008; un rapporto le cui raccomandazioni sarebbe utile rileggere oggi, alla luce di questo ennesimo esplodere delle violenze. Il documento mette in luce proprio come le missioni di mantenimento della pace condotte dall’Unione Africana dipendono dai contributi volontari dei donatori e quindi risentono della mancata continuità e dello scarso coordinamento dei governi. La conferma di quanto le ONG dicono da anni, e cioè che il supporto internazionale alla pace e al rispetto dei diritti umani esige sostenibilità e coerenza. E maggiore coordinamento.

E l’Italia cosa fa? Come le nostre istituzioni si fanno promotrici di un processo politico che riporti il problema di questa regione al centro dell’attenzione internazionale e, in particolare, dell’azione dell’Unione Europea?

Ogni attore internazionale deve essere pronto a prendersi le proprie responsabilità. Non scordiamoci che fu proprio la presidenza italiana del G8 ad identificare l’Africa – e le sue crisi regionali –  tra le priorità. Promettendo di impegnarsi per soluzioni di lungo termine perché l’Africa sviluppasse capacità autonome.

 

 

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