Welfare

Un centauro al varco della riforma

di Flaviano Zandonai

Il senatore Marino è abile. Gioca una carta da consumato uomo dei corpi intermedi, da finale di trattativa. Spariglia il tavolo riportando il dibattito su questioni di base che sembravano più che risolte. Non solo a livello normativo, ma anche e soprattutto nella prassi. Ed ecco quindi che l’evocazione del centauro o qualsiasi altra immagine mitologica, animale (io sono affezionato all’okapi ad esempio) e vegetale che restituisca il carattere geneticamente ibrido dell’impresa sociale colpisce nel segno e, a modo suo, raggiunge l’obiettivo. Non solo perché rallenta i lavori parlamentari, ma perché riporta artatamente anche il confronto fuori dall’aula su questioni artificiali, distogliendo l’attenzione da quelle sostanziali.

Sì perché l’impresa sociale ha metabolizzato gli elementi di ibridazione che sono all’origine del suo modello e, con buona pace del senatore, si appresta a incorporarne altri. Alla riforma quindi non è solo richiesto di definire i fondamentali, gli elementi costitutivi, ma di indicare, in particolare al Governo che agirà in sede di decretazione, linee guida che intercettino i contesti più densi in cui prende forma la produzione di valore sociale. In questo senso la norma, rispetto alle versioni precedenti, rimarca il terzo settore come “bacino” prioritario (praticamente unico) di imprenditoria sociale. Un ambito rilevante, ma non il solo in una fase in cui la socialità deborda in luoghi, settori, mercati sempre più differenziati. Forse un’impresa sociale meno vincolata a questa prospettiva poteva ambire ad un’operatività a più ampio raggio, ma probabilmente lo scatto di reni che ha portato all’approvazione della norma sulle società benefit ha coperto un ambito – quello, per capirci, della produzione di valore condiviso nell’ambito dell’economia mainstream – che ha suggerito al legislatore un riposizionamento più circoscritto in quello che, tra l’altro, è storicamente l’alveo dove è l’impresa sociale nella forma della cooperativa sociale è nata e ha conosciuto la sua prima, importante fase di espansione.

Ma tant’è, ormai ci siamo (facendo i dovutissimi scongiuri), quindi meglio riepilogare le sfide che attendono la nuova legislazione e la sua implementazione all’interno di un policy framework articolato e da completare, attraverso il quale transiteranno importanti risorse (dall’impact investing ai fondi strutturali passando per i grant di fondazioni, cittadini, ecc.). Un riepilogo utile a scansare, in velocità, il centauro posto da Marino al varco della riforma.

La prima sfida riguarda il “pay back” degli investimenti. In questi ultimi anni cooperative e altre forme più o meno canoniche di impresa sociale hanno investito, e molto, su innovazioni di prodotto e di servizio che oggi è indispensabile portare a regime, alimentando nuovi modelli di business e di efficacia dell’azione sociale. Un passaggio cruciale per riposizionare le imprese sociali nei mercati, non solo in quelli nuovi ma anche in quelli tradizionali come quelli pubblici, dai quali rischiano di essere espulse o, forse peggio, ulteriormente ridimensionate rispetto al carattere di “interesse collettivo” che ne sostanzia l’operato e la missione, scadendo ulteriormente in sistemi di outsourcing (pubblici o privati che siano) sempre più impoveriti e sempre più a rischio di comportamenti opportunistici (se non peggio).

La seconda sfida consiste nel rendere più agile il lavoro all’interno di organizzazioni che hanno investito molto anche sul consolidamento del capitale umano (in termini contrattuali e di formazione), ma che oggi si trovano ad affrontare problemi di produttività dovuti a eccessive rigidità organizzative generate da forme di isomorfismo burocratico e a un crescente stress dovuto all’impoverimento delle risorse da allocare per mantenere (o migliorare) gli standard qualitativi lungo la linea dei servizi.

Terza sfida: la ricerca intenzionale di una maggiore sintonia le nuove espressioni di socialità; un’azione sociale oggi riconfigurata all’interno di contesti  e attraverso tecnologie che ricordano molto poco i contesti e le tecnologie che, all’epoca, sostennero lo startup delle imprese sociali di prima generazione. Il rischio, in questo caso, è che il lavoro comunitario delle imprese sociali degradi a mera azione di “responsabilità sociale d’impresa” (proprio nel momento in cui le imprese for profit superano questa prospettiva) o che le imprese sociali vengano spiazzate su un loro terreno elettivo, come, almeno in parte, dimostra il civismo ormai imperante dei beni comuni che monopolizza l’azione sociale volontaria e, a tendere, anche quella economica.

Tre buoni motivi – assieme ad altri – per scansare il centauro.

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