Qualche molecola di ansia abita sempre nell’aria di settembre, il mese-capodanno, che segna la ripartenza su tutti i fronti in agenda. Ma soprattutto quest’anno, si annuncia sovraccarico per un mix di dubbi, auspici e algoritmi: tornerà la strage del virus? Il lockdown? La scuola? E il PIL?
Domande che urgono ora dopo un’estate che si è cercata più svagata del solito, sull’onda di un diritto al divertimento guadagnato nella primavera sotto chiave, che ha già presentato il conto.
Tant’è che dopo una breve tregua, è tornata un’ansia carica come una mina: riempie gli spazi tra le righe dei giornali e tra i nostri fiati. Una dimensione familiare, che sa espandersi per gradi diversi, dal più tenue, quasi protettivo, al più paralizzante.
Il dizionario la traduce come “affannosa agitazione interiore provocata da bramosia o incertezza”. Da cui il derivato “desiderio assiduo e tormentoso”, che può precipitare in “preoccupazione persistente”. Fino a diventare, non solo in psichiatria, sinonimo di “angoscia”. Una parola che cancelleremmo dal vocabolario, sennonché forse proprio in quello etimologico si rintraccia, insieme a molto dolore, la formula di un possibile antidoto.
Ansia viene dal sostantivo latino anxia che, con l’aggettivo anxius, indica ciò che è inquieto, che tende all’angoscia, affannato, vigilante fino al pedantesco.
Anxius animi, scrive lo storico romano Sallustio, riferendo la parola all’animo, a una stanza interiore.
Anxia res est humanorum condicio bonorum, sostiene Boezio nel suo dialogo con la filosofia invitata a consolare: è cosa piena di ansie la condizione dei beni degli uomini. E lo scriveva molti secoli prima dell’invenzione dello Xanax. Millenni prima che l’Economist definisse il nostro tempo “The age of anxiety”.
Perché il fatto che non riusciamo ad accettare la precarietà e l'imprevedibilità delle cose umane, per il filosofo, non solo ci conduce al lamento perenne, all’insoddisfazione, ma a questa forma di soffocamento.
Anxius infatti condivide la sua radice con il verbo angere, che vuol dire stringere, serrare la gola. Nella forma riflessiva significa tormentarsi, angustiarsi. E angustus è quel luogo così stretto da non lasciarci respirare, nel quale ci infiliamo, volenti o nolenti. Come se il mondo si prosciugasse intorno a noi fino a far coincidere il suo contorno con le dimensioni delle nostre preoccupazioni o ossessioni, che perciò si aggrovigliano e confondono fino ad acquisire dimensioni e nodi inaffrontabili.
Il contrario dell’ansia, dunque, è uno spazio ossigenato, che si fa largo sfondando pareti anguste.
Anxia res est humanorum condicio bonorum
È cosa piena di ansie la condizione dei beni degli uomini.
Boezio
A questo scopo può tornare utile il metodo “matematico” di Cartesio, che suggeriva l’enumerazione completa: mettere in fila tutte le questioni, senza omissioni, come se lo scrivere elenchi delle paure-ansie fosse già un modo per superarle, o almeno governarle. L’enumerazione come funzione di controllo, che è ciò che l’ansia ci scongiura di non perdere in nessuna circostanza.
Ma c’è un altro farmaco, meno matematico, più “geografico”: se il contrario dell’ansia è uscire all’aperto, lo snodo è saper allargare l’orizzonte, la vista, usando mappe più grandi per l’animo, lo spirito, la mente, per riprendere la parola di Sallustio. E questo è un lavoro che sa svolgere la gratitudine.
Quella capacità cioè di dire semplicemente grazie per qualcosa che non è l’esito di un nostro sforzo, ma che ci è dato, for free. La gratitudine, con la sua materia libera, è in grado di abbattere bastioni più dei cannoni.
L’estate potrebbe averla pure alimentata, almeno stando alle collezioni di mille tramonti postati su Instagram, mari adamantini, scorci di vette e cieli blu, tutti donati gratis, insieme al tempo concesso a un buon vino con le persone care.
In questo senso la gratitudine è più geografica che matematica: consiste della capacità di vedere il paesaggio, umano e non solo, in tutte le sue componenti.
Come sanno i poeti o gli artisti, che riconoscono bellezza dove più facilmente ci si distrae, o chi intravede un gesto di generosità dove regna l'egocentrismo, chi procede per pregiudizi positivi su quanto accade.
Chi si sente grato per un’esperienza o un incontro non “meritato”, preferisce barattare la brama di controllo con l’apertura all’imprevisto. Perché questo genere di gratitudine allarga la stanza asfittica dove si trova a suo agio l’ansia, finché questa se ne va. Per un po’, almeno.
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