Dietro le sbarre

Un altro carcere è possibile?

L’esperimento detentivo non convenzionale di Porto Azzurro degli anni Ottanta può aiutare a riflettere sulle prospettive di miglioramento della qualità della vita all’interno delle carceri. Amelia Vetrone, associazione Gomitolo Perduto: «Deve cambiare la politica carceraria. Servono fondi e un’attenzione all’etnopsichiatria»

di Ilaria Dioguardi

Il carcere di Porto Azzurro, all’isola d’Elba, è ricordato purtroppo per l’episodio del sequestro di 33 persone nel 1987, ma rappresenta ancora oggi un esempio di “carcere virtuoso”. Si è distinto per le iniziative innovative volte a promuovere la riabilitazione e il reinserimento sociale dei detenuti, proponendo programmi straordinari come concerti, tavole rotonde e grandi eventi aperti al pubblico. Il “carcere illuminato” di Porto Azzurro, in cui l’attenzione non era concentrata esclusivamente sulla detenzione ma anche sulla formazione e sulla riqualificazione, può essere per alcuni aspetti un esempio da seguire oggi?

Investire negli istituti

«Attualmente si potrebbe fare molto di più negli istituti penitenziari, partendo dal fatto che la popolazione detenuta è differente rispetto a 40-50 anni fa. La visione del carcere, negli anni Ottanta, era diversa a livello ministeriale rispetto a quella odierna. Le risorse per fare Porto Azzurro c’erano, oggi si taglia continuamente sulle carceri, e sulla sanità in carcere», dice Amelia Vetrone, avvocata, presidentessa dell’associazione Gomitolo Perduto, che ha recentemente organizzato il convegno Porto Azzurro, un carcere illuminato, a Firenze. «Se si tagliano i fondi degli istituti penitenziari, ce lo ritroviamo come problema generale. I direttori delle carceri oggi, se volessero fare quello che fece l’allora direttore Cosimo Giordano a Porto Azzurro, non lo potrebbero fare: non ci sono risorse economiche».

Attenzione all’etnopsichiatria

«Oggi dovrebbe esserci un’attenzione all’etnopsichiatria, all’interno delle carceri. Hanno tolto gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza – Rems, sono molto poche», continua Vetrone. «I detenuti immigrati sono tantissimi. Ad esempio, ci sono i detenuti provenienti dai campi libici che hanno subito già esperienze tremende, commettono reati e finiscono nelle nostre carceri, come si fa a non dare loro aiuto? Se non si stanziano dei fondi, è impossibile poterli aiutare. Basta guardare il numero di educatori nelle carceri, sono molto pochi, eppure hanno un ruolo sociale importantissimo, sono loro che devono dare una mano a questi ragazzi», prosegue l’avvocata. «Quando vado nelle carceri per il mio lavoro, vedo che il personale carcerario si dà da fare per aiutare i detenuti, per quello che può. Penso che il problema non sia il carcere in sé, ma è più grande: bisogna cambiare la politica carceraria nel nostro paese».

Il Festival della Legalità è organizzato tutti gli anni dall’associazione Gomitolo Perduto

Promozione dei valori della legalità

«Il problema delle carceri in Italia oggi non è tanto territoriale, legato a un direttore o al provveditore, ma nazionale. Finché si intende il carcere in termini punitivi non ci può essere una progettualità. Questo è l’errore. Chi esce dal carcere deve avere la possibilità di avere una carta da giocare nella società, non di essere escluso. Quando si parla di carcere bisogna cambiare la visione», continua Vetrone. «La maggior parte dei detenuti sono recidivi. Se ognuno di questi ragazzi, quando esce dal carcere, commette di nuovo il reato, tutta la società civile ha fallito. Questo giustizialismo generale non è corretto, determina una percezione diversa di tutte le attività». Gomitolo Perduto promuove i valori della legalità in senso ampio, con un’attenzione alle marginalità. «Abbiamo uno sportello immateriale che si occupa di legalità e di genere: molto spesso non si ha voglia di recarsi ad uno sportello fisico perché non si vuole denunciare o non si ha la consapevolezza di vivere in una situazione di violenza. Organizziamo degli incontri sulla legalità nelle scuole». Ogni anno l’associazione organizza un Festival della Legalità, in cui a parlare dei temi sono i diretti interessati, quest’anno si svolgerà il 25 e 26 maggio a Firenze.

Idoneità degli istituti penitenziari

«Gli istituti penitenziari devono avere le strutture idonee. Noi possiamo fare tutte le leggi che vogliamo, ma se non si hanno le strutture idonee per applicarle e il personale adatto (come numero), non si può fare assolutamente nulla. Proprio perché il reinserimento è molto difficile, bisogna avere il tempo per operare». A parlare è Cosimo Giordano, direttore del carcere di Porto Azzurro dal 1983 al 1987. «Gli anni in cui sono stato direttore a Porto Azzurro è stata una stagione molto fortunata. Avevo intorno a me persone molto capaci (sia nel campo amministrativo sia in quello educativo), il supporto della magistratura di sorveglianza e della regione Toscana. Un insieme di fattori mi hanno permesso di fare delle cose che, attualmente, sono improponibili. Lo erano anche allora, però abbiamo rischiato e abbiamo ottenuto dei grossi risultati».

Cosimo Giordano. ex direttore del carcere di Porto Azzurro, e Amelia Vetrone, avvocata, presidentessa dell’associazione Gomitolo Perduto

Celle personalizzate e posti di lavoro

«L’organizzazione interna del carcere di Porto Azzurro era molto fruibile da parte dei detenuti, che abbiamo sempre considerato come persone. Abbiamo sempre operato per il loro benessere. Pianosa (distaccamento del carcere di Porto Azzurro, ndr), era “abitata” da quasi 500 ergastolani, che vivevano in celle che non erano standard, ognuno le poteva personalizzare, anche per ricordare il loro passato, la loro famiglia», prosegue Giordano. «Davamo circa 300 posti di lavoro, tra calzolai, fabbri, meccanici, muratori, che eseguivano attività sia all’esterno sia all’interno del carcere. Ancora oggi, dopo più di 40 anni, se andiamo in villeggiatura a Porto Azzurro, c’è la possibilità di essere ospitati nelle casette libere della cittadella, ristrutturate dai detenuti».


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Tavole rotonde tra detenuti e amministrazione penitenziaria

«Come dicevo, per un carcere come quello che era Porto Azzurro ci vogliono le strutture adatte. La famosa “sorveglianza dinamica” la attuavamo 40 anni fa. Il detenuto la mattina usciva dalla sua cella e poteva andare, ad esempio, in tipografia, dove si stampava il periodico La Grande Promessa, che veniva distribuito in tutti gli istituti penitenziari italiani. Il primo ordinamento penitenziario, relativo al regolamento di esecuzione, è stato stampato nella tipografia di Porto Azzurro con manodopera esclusivamente di detenuti», racconta Giordano. «Poi, c’era una sala a circuito chiuso, nella quale i rappresentanti di ogni sezione discutevano di tutti i problemi del carcere con la direzione e con la magistratura di sorveglianza; queste tavole rotonde venivano trasmesse all’interno delle celle e i detenuti potevano seguirle, in tempo reale. Organizzavamo poi molte attività culturali. Mi ricordo un concerto di Lucio Dalla con 1.500 ospiti esterni e 1.500 detenuti».

Il 25 agosto 1987

«Lo sottolineo sempre, quel 25 agosto del 1987 non c’è stata rivolta a Porto Azzurro. Tutti i detenuti si sono chiusi in cella e hanno partecipato moralmente alla nostra liberazione, hanno preso le distanze. C’è stato un tentativo di evasione da parte di sei detenuti che, non essendo riuscito, si è trasformato in un tentativo di sequestro», dice l’ex direttore. «Quattro di questi detenuti erano da poco a Porto Azzurro, non avevano ancora recepito quello che stavamo facendo, come amministrazione penitenziaria». Dal 25 agosto al 1 settembre Giordano e altre 32 persone furono sequestrate da sei detenuti. «Dopo una settimana di trattativa, la soluzione fu quella di permettere ai sei detenuti, se ci fossero state le condizioni giuridiche, di usufruire delle misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario. Dopo quest’episodio, è stato deciso il mio allontanamento da Porto Azzurro (“per incompetenza, per mancanza di controllo”, ndr)».

Foto di Pawel Czerwinski su Unsplash

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