Cultura
Un altro anno di bioboom per il bel paese
LItalia al naturale si mette in mostra a Bologna. A Sana, grande raduno annuale del biologico, si festeggiano i nuovi record del settore: più aziende e più consumi.
di Redazione
Èun momento di grande soddisfazione, quasi di euforia, per il mondo del biologico italiano. Le vendite sono pressoché raddoppiate nell?ultimo triennio arrivando a sfiorare i 3mila miliardi, trasformando finalmente in obiettivo quello che finora era un sogno: poter definire il biologico un segmento di mercato come tutti gli altri, non più una nicchia per affezionati.
I segnali sono incontestabili. Negli ipermercati e supermercati i prodotti bio cominciano a uscire fuori dagli ?angoli del naturale? (in pratica, ghetti dove non li vedeva nessuno) per acquisire cittadinanza accanto ai prodotti convenzionali della stessa categoria merceologica, mentre sono sempre di più le catene della grande distribuzione che puntano su linee bio con il proprio marchio come elemento qualificante dell?immagine d?insegna. In tv poi sono arrivate le prime campagne pubblicitarie: Invernizzi e Granarolo, per esempio, due grossi nomi del settore lattiero-caseario.
Le luci della ribalta – come sempre – mettono in evidenza anche i rischi connessi all?evoluzione del comparto verso logiche produttive di tipo industriale, come fa notare il presidente dell?Associazione italiana per l?agricoltura biologica-Aiab, Vincenzo Vizioli. «Il coinvolgimento della grande distribuzione ha dato una visibilità su vasta scala, ma ha indebolito una delle caratteristiche storiche dei prodotti: il legame profondo con il produttore agricolo e quindi con il territorio, che rappresentava di per sé una garanzia. Fino a quando eravamo un gruppo di amici che condividevano una passione, il controllo era meno importante, adesso che i prodotti sono, in qualche modo, più anonimi, bisogna rendere più stringenti i sistemi di verifica, per evitare il rischio che qualcuno cavalchi il business».
Il rischio è reale e non riguarda solo i fitofarmaci, ma anche gli ogm. La ricerca di materie prime transgeniche condotta periodicamente dall?Aiab, ad esempio, ha dato esito positivo in numerosi casi, nonostante i prodotti fossero etichettati ?ogm free?. È anche per questa ragione che l?Aiab ha deciso di abbandonare l?attività di ente certificatore per concentrarsi sull?area dei servizi ai produttori: è meglio che chi controlla non faccia nient?altro. «Se la domanda di alimenti puliti continuerà a crescere, come ci auguriamo tutti», prosegue Vizioli , «la produzione si dovrà adeguare, non solo nel senso di rendere disponibili maggiori quantità, ma anche di garantire una qualità più stabile e trasporti meno costosi, ad esempio. Molti produttori hanno bisogno di aiuto, ci sono tante piccole realtà in montagna, ad esempio, che vorrebbero presentarsi sul mercato ma non sanno nemmeno come ottenere la certificazione».
Un caso emblematico è quello della frutta e verdura fresche: all?infuori del comprensorio romagnolo e triveneto, non esiste praticamente un?organizzazione comune degli agricoltori per distribuire il prodotto, e ognuno si arrangia come può. Il panorama della filiera, in sintesi, vede una produzione agricola ancora molto frammentata, e in buona sostanza inefficiente, confrontarsi con un?industria di trasformazione e di commercializzazione che si va rinforzando attraverso l?ingresso di grandi imprese. Su molti prodotti bio compaiono ormai marchi già affermati, dietro i quali stanno realtà industriali da centinaia di miliardi. Questo fenomeno sta cambiando le regole del gioco ed è una grande sfida per i piccoli produttori italiani. «Stiamo attenti al boom della domanda, potrebbe esploderci in mano», avverte Loris Martelli, direttore generale di Confruit, un?azienda che da anni lavora per far convivere logiche industriali di efficienza e rispetto della natura; sono un po? preoccupato per l?euforia che sta dilagando. Il mondo agricolo non è ancora pronto per far fronte a una crescita troppo rapida della domanda: per vendere nella grande distribuzione bisogna garantire continuità, varietà di prodotto, prezzo contenuti e una logistica ben organizzata, tutte cose che ancora non ci sono. Ma non ci sono neanche alternative».
In un contesto così problematico, il rischio legato a un?impennata dei consumi potrebbe essere nel migliore dei casi un ritorno all?import (come accadeva negli anni ?80), e, nel peggiore, l?arrivo degli ?ecofurbi?. Che si infilano nelle maglie a volte troppo larghe degli organismi di controllo, in Italia nove, troppi secondo l?unanime giudizio di produttori e trasformatori.
Colloquiare con un gruppo ristretto di organismi che applicano il massimo rigore è proprio uno degli obiettivi prioritari del Consorzio biologico per lo sviluppo sostenibile, nato nel luglio scorso, che ha finora raccolto l?adesione di 55 aziende tra cui un distributore leader Esselunga, che è anche un produttore e ha promosso l?iniziativa. «Non si tratta per noi, di una partnership finalizzata a consolidare rapporti di fornitura», afferma Pierluigi Stopelli, segretario del consorzio e responsabile acquisti dell?area fresco Esselunga, «la nostra filiera è già organizzata. Ci aspettiamo invece vantaggi soprattutto in termini di comunicazione, fatta insieme per sensibilizzare il pubblico sul significato dell?agricoltura bio».
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