Formazione

Ulivo, occhio alla tristezza

Il presidente del Censis, da 50 anni osservatore profondo dell’Italia: "Hanno vinto i tanti Parsifal. Cioè i liquidatori della politica". Intervista a Giuseppe De Rita.

di Ettore Colombo

Giuseppe De Rita (classe 1932, un numero di figli alto quasi quanto quello delle sue pubblicazioni scientifiche, funzionario della Svimez, consigliere e poi segretario del Censis, presidente del Cnel e una serie di altri incarichi di prestigio passati e presenti impossibili da elencare tutti) ha l?aria bonaria e paciosa di un genere di intellettuale che non c?è più: quello democristiano che ha fatto la storia della Repubblica (la prima, s?intende) e dello sviluppo industriale e sociale dell?Italia: i Saraceno, i Vanoni, i Fanfani. Anche De Rita viene da quella storia, ma pur difendendo il passato ha uno sguardo lucido, acuto e vigile sul presente e originale sul futuro. De Rita è ottimista. Perché? «Sono un annusatore, lo sento». Non male per uno studioso diventato celebre per le sue indagini, come quella sul sommerso, datata 1971. L?ultimo suo libro s?intitola Il regno inerme e parla di crisi della società e delle istituzioni. De Rita lo abbiamo incontrato nella sede centrale del Censis, a Roma, un piccolo gioiellino di cui il suo presidente va molto fiero («Il Censis non ha mai goduto di una lira pubblica, non solo politica: vive perché sta sul mercato. In dieci anni è passato da 8 a 90 contratti di commitenza, il che vuol dire due ricerche a settimana. Il bello dell?autonomia del sociale sta proprio in questo, che può vivere solo di e sul mercato. La politica la ascoltiamo, lavoriamo anche per enti pubblici, ma non dobbiamo rispondere a nessuno»). Di sicuro non risponde a nessuno De Rita. Che non si risparmia giudizi duri e severi, vere staffilate. Stante che, naturalmente, uno è suo amico, uno lo conosce da una vita, quell?altro ancora lo stima. Come dicevano i diccì di una volta, «fatta salva l?amicizia carissima». Vita: Cosa faceva Giuseppe De Rita dieci anni fa? Giuseppe De Rita: Sono circa 50 anni ormai che faccio sempre lo stesso mestiere, il ricercatore sociale. Tra l?89 e il 2000 ho fatto anche il presidente del Cnel, ma per tutta la mia vita, dal 1955 ad oggi, il mio campo di lavoro è stato la ricerca sociale, prima alla Svimez e poi al Censis. Potrei dire – proprio perché parliamo di dieci anni fa – che io sono un ?continuista?, mentre allora andava molto di moda la ?discontinuità?. Quella della rivoluzione di Tangentopoli, della cultura del maggioritario, della retorica sulla nuova Italia, dell?esplosione del berlusconismo. Venivo ritenuto un uomo della ?Prima repubblica? e dunque qualche prezzo l?ho pagato anch?io. Ma non erano solo i nuovisti a criticare me, anch?io criticavo loro: dicevo già allora che ci sarebbe stato un ulteriore allontanamento della politica dalla molecolarità crescente della società. Vita: Qual era l?interpretazione della società che davano i nuovisti? De Rita: Vedevano una società che cresceva e sarebbe cresciuta in termini di ?opinione?. Credevano nel partito d?opinione, che però distruggeva tutti i partiti tradizionali di massa, nella personalizzazione della politica, fenomeno che venne cavalcato da tutti, da Occhetto a Ciampi fino a Berlusconi, rompendo la logica stessa dell?organizzazione della vita politica. Credevano nella verticalizzazione del potere, un altro processo portato avanti sia dai governi Amato e Ciampi prima che da quelli Berlusconi e Prodi dopo, un altro modo per mettere in dubbio o eliminare del tutto la possibilità di ragionare della politica in ?prossimità? dei luoghi del sociale. Ma dietro l?effetto Tangentopoli, la voglia di moralità, la retorica della nuova Italia, dietro i presunti Parsifal della nuova classe politica, il comun denominatore era la forza del potere mediatico che s?imponeva, non l?opinione pubblica. Oggi critichiamo molto l?iperpotere mediatico di Berlusconi, ma per tutti gli anni Novanta, in molti hanno contributo a creare le condizioni perché il potere nelle nostre società fosse solo mediatico: distruggendo il sistema dei partiti di massa, personalizzando la politica e verticalizzando il potere. Insomma, esaltare il ?partito d?opinione? è stato un modo per gettare le basi dell?attuale strapotere dei media. Vita: Un processo giunto al capolinea o che non avrà fine? E quali sono, se vi sono, gli anticorpi sociali? De Rita: Il processo di sganciamento della politica dalla realtà dei fatti per andare verso l?appeal mediatico è cresciuto enormemente in questi dieci anni, ma oggi comincia anche a suicidarsi. Nel senso che alla fine la prigionia dei media che esprimono il presidente del Consiglio, la Lega come pure l?opposizione è una forma di suicidio politico. Magari ci mettono altri dieci anni a capirlo ma il predominio della cultura mediatica nella politica è alle corde. Cosa farà il mio amico Enrico Letta, nei prossimi anni? Continuerà ad andare a Porta a Porta? Chi accetta il gioco imposto dai media accetta il suicidio. Vita: Ma c?è una cura possibile? De Rita: In parte quel processo ha creato degli smangiamenti, acetoni interni che lo hanno corroso, in parte l?anticorpo vero della società che si è creato è l?aumento della logica della prossimità. Prossimità significa ritorno al borgo, alla vita nella piccola città, significa fare agriturismo, frequentare teatri e concerti di provincia, fare volontariato e impresa sociale, fare la consulta dei piccoli comuni, o partecipare all?iniziativa di Legambiente il cui slogan era ?mettetevi lo zaino in spalla e andate a scoprire i prodotti tipici delle vostre terre?. Tutte reazioni benefiche alla virtualità del potere mediatico. Certo, poi succede che a me, che parlo di olio e vino tipico, di cipolla di Cannara o lardo di Colonnata, arrivino le accuse di un economista come Giulio Sapelli, sull?Unità, che mi imputa l?idea che per il nostro Paese ?conta più il Barolo della Fiat?. Non penso questo, dico solo che l?italiano medio vuole vivere così: nell?ultimo rapporto Censis, ho usato la formula della ?voglia di vivere altrimenti?, una voglia più forte dello stress del declino e dell?impoverimento che fa scegliere alla gente proprio la prossimità e le forme della prossimità come un modo per vivere ?altrimenti?. Questo è l?unico vero anticorpo che è nato contro la cultura mediatica vincente. Vita: Declino industriale, impoverimento dei ceti medi, nuove tasse. L?Italia è al capolinea? De Rita: Detto molto sinceramente, girando l?Italia io non vedo declino, non vedo impoverimento. è probabile che l?impoverimento ci sia in alcune fasce di ceto medio impiegatizio di famiglie di un solo reddito, reddito bloccato dalla spesa pubblica che è cresciuta e dunque bloccato negli stipendi. Questo fenomeno c?è e va studiato. Così come, in secondo luogo, va studiato se questo impoverimento è legato a fatti reddituali o anche patrimoniali: i nostri genitori non sono riusciti a comprarsi la casa, la mia generazione sì: magari noi preferivamo guadagnare di meno, ma avere la certezza di comprare la casa, anche due, a volte, e tutt?al più d?investire un po? di soldi. Ma sono queste rendite che costano oggi, oltre alla fregatura sui bond, per chi ha investito in questi titoli visto che i Bot rendevano poco. Il patrimonio, un tempo fonte di sicurezza, tra Ici e altre tasse varie, ora diventa fonte d?impoverimento: è in questo mix negativo di reddito-patrimonio, che non è ancora stato analizzato da nessuno, ma che noi studieremo in vista del rapporto annuale del Censis, che ? annuso, perché io sono un annusatore ? sta il problema. Ma limitarsi a dire che il ceto medio ha un reddito minore di prima non è corretto. In terzo luogo, mi sembra che ci sia più una paura dell?impoverimento che un impoverimento vero e proprio. Quando vedo che la gente dice «io adesso sto bene, ma ho paura per il futuro», il problema è il sintomo di una paura, non un reale impoverimento. Non accetto chi presenta, come fa Repubblica, le storie di vita di chi sostiene di vestirsi dalle suore, riprendendo una ricerca della comunità di Sant?Egidio. Questa è una logica perversa e figlia di strumentalità politica: siccome il presidente del Consiglio dice che siamo tutti più ricchi, io Piero Fassino ed Enrico Letta dico che siamo diventati tutti più poveri. Qual è la loro alternariva? Il sussidio di disoccupazione? La faccia triste? Qual è l?idea di futuro che ha l?opposizione? Per dirla tutta, credo che il tanto parlare di pauperismo borghese va di moda oggi sia niente di più che una fregatura mediatica proprio come il giustizialismo di dieci anni fa. E guardi che tifo per loro? Vita: Come reagiscono la politica e il mondo del Terzo settore di fronte a questi problemi, secondo lei? De Rita: In modo schizofrenico. Non solo l?opposizione ma anche la Confcommercio parlano di crisi, impoverimento, di ?deriva argentina?. Poi arriva Berlusconi e sostiene che abbasserà le tasse, farà ripartire i consumi. Poi arriva Fini e dice: il problema è tagliare le tasse ai redditi bassi, non a quelli alti. Insomma, ognuno persegue solo il proprio obiettivo politico e mediatico, nessuno cerca soluzioni. Ma è questa l?Italia che vogliamo? Un?Italia taroccata dai media ? Ecco perché la mia ricetta ? finora perdente ? è quella della poliarchia, cioè di una società molecolare e policentrica che essendo tale non può essere governata dal centro, da una monarchia a piramide, dal presidente operaio come dalla retorica statalista. Vita: Ma con il federalismo la poliarchia non è più vicina? De Rita: In realtà negli ultimi dieci anni la verticalizzazione e militarizzazione del potere, dei media, della società è cresciuta a dismisura sia costruendo nuove piramidi statuali, sia costruendo quella europea, dove è stata licenziata una costituzione verticale e burocratica scritta anche dal mio amico Giuliano Amato. è nato un vero e proprio ?europeismo triste?. Per non parlare del federalismo delle 20 piramidine dei governatori regionali che, negli anni Novanta, si sono proclamati tali grazie all?elezione diretta. Non hanno alcun interesse ad adottare nuovi, veri e poliarchici statuti regionali, ma hanno stretto un accordo con Bossi: via libera al federalismo in cambio della difesa del loro potere. Insomma, veniamo da anni anti-poliarchici a tutti i livelli, ma oggi bisogna avere il coraggio di mettere assieme tutti quelli che ci stanno (consigli, fiere, camere di commercio, piccoli comuni), e che fanno policentrismo, ma non ancora poliarchia e tentare davvero questa strada. Purtroppo, anche chi sta dentro questa cultura poliarchica, a questo assetto policentrico del potere, troppe volte è tentato a ?star dentro?, a cercare udienza nella piramide monocratica. Le Fondazioni bancarie, ad esempio, enti privati di autonomia sociale per la Costituzione, dovrebbero lavorare solo per la sussidiarietà orizzontale, invece mettono un terzo delle loro risorse nella Cassa depositi e prestiti: temono le ispezioni di Tremonti. Vita: E il Terzo settore come lo vede? De Rita: In una discussione avvenuta proprio in casa delle Fondazioni, negli interventi di Edo Patriarca del Forum del Terzo settore e di Raffaello Vignali della Cdo si sentiva l?odore, il richiamo dell?intervento pubblico e politico (inquadrato dal dire ?facciamo bene comune, siamo dentro la cultura del bene collettivo, siamo più pubblici dello Stato?), ho visto una torsione verso lo statalismo inaspettata anche per me che vengo da una formazione iper-statalista e che credevo il Terzo settore fosse tutto proiettato verso privato sociale e sussidiarietà orizzontale. Allora mi domando se il mondo del sociale sia davvero sicuro di voler portare fino alle estreme conseguenze il destino di privato, sussidiario e sociale che c?è nel suo dna o se non stiano vincendo invece le legittime esigenze di chi vuole parlare non alla politica ma di politica. Ricordo che nelle idee ricostitutive della Dc del 1943 c?erano molte grandi intuizioni, come quella di legare la scuola al territorio. è dal territorio che si arriva alla famiglia. Lì c?era la cultura migliore della Dc, quella della responsabilità del cittadino, la cultura degasperiana dell?autonomia del sociale. Certo non si può pensare di trovare un nuovo De Gasperi né in giovani volenterosi come Letta e Volonté, che lavorano nell?Intergruppo parlamentare sulla sussidiarietà, né nello stesso Romano Prodi, che già quando scese in campo non volle dotarsi di una ?seconda gamba? sociale, dentro la sua coalizione. Ma incontrare, farsi prossimo deve essere il compito del non profit, non fare politica. Perché, vede, il Terzo settore troppo spesso pensa che una legge, un regolamento, un finanziamento regionale sia la soluzione, invece non è la soluzione, quantomeno non l?unica. Il rampino politico non è certo la soluzione dei problemi.


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