Mondo

Uganda: Tumangu, per non dimenticare

di Giulio Albanese

Ho deciso di condividere con i lettori di questo Blog, l’esperienza che vissi il 28 agosto di 12 anni fa in Uganda, assieme a due miei confratelli comboniani. Allora, nelle regioni settentrionali di questo Paese africano, imperversava la guerriglia dell’ Esercito di Resistenza del Signore (Lra). Fu un’avventura adrenalinica, che non dimenticherò mai, a Tumangu (in lingua acholi: ‘il luogo dove abita la bestia feroce’), villaggio sperduto in mezzo ai ciuffi d’erba alta, una trentina di chilometri a est di Kitgum. Oggi, i ribelli non sono più presenti in Uganda, anche se continuano a fare disastri in giro per l’Africa. Sotto la guida del loro leader storico, un pazzo visionario di nome Joseph Kony, gli olum (in lingua acholi: ‘erba’) seminano morte e distruzione, soprattutto nella Repubblica Centrafricana e in alcune zone dell’ex Zaire e del Sud Sudan. Quello che segue è il racconto che buttai giù un paio d’anni dopo quei brutti momenti. Credetemi, non mi sento affatto un eroe, soprattutto se penso alle orribili sofferenze della popolazione locale, immolata per lunghi anni sull’altare dell’egoismo umano. Ringrazio Dio se sono ancora vivo.

P. Giulio

 

E’ il 28 agosto del 2002. In questa località dal nome tutt’altro che incoraggiante, non lontano dal confine sudanese, padre Tarcisio, padre Carlos e il sottoscritto andiamo a incontrare un gruppo di ribelli dell’Esercito di Resistenza del Signore (Lra), nel quadro di una difficile mediazione di pace promossa dalla chiesa Cattolica e da altri leader religiosi locali. Tante volte mi sono chiesto perché sia stato così incosciente da voler incontrare a tutti i costi quella banda di scellerati. A parte il cromosoma della curiosità iscritto nel mio Dna, penso di averlo fatto per dovere di solidarietà nei confronti del popolo acholi e in segno di condivisione verso Carlos e Tarcisio. Comunque, non nascondo di avere avuto paura, tanta paura e ancora oggi, quando con la mente torno a quel giorno, provo un senso di smarrimento; credo che sia stato un autentico miracolo riuscire a scampare alla morte in una simile circostanza. E’ a dir poco sconvolgente trovarsi di fronte a questi pazzi scatenati che combattono con il rosario al collo nel nome di un presunto dio dalle bizzarre pretese: proibisce tassativamente di mangiare galline bianche, possedere vacche del gruppo etnico degli ankole e soprattutto ordina di uccidere chiunque beva alcolici o fumi tabacco.
Partiamo al mattino da Kitgum con il fuoristrada della missione e dopo mezzora di viaggio veniamo fermati, stranamente, a un posto di blocco governativo. Dico stranamente perché padre Tarcisio aveva già informato dell’iniziativa le autorità locali e il giorno prima della partenza eravamo andati a esporre i contenuti della missione anche al prefetto che lì funge da collegamento tra autorità civili e militari. Tra l’altro il luogo scelto per allestire un posto di blocco inusuale; in genere, mi dice padre Tarcisio, “qui i militari non si fanno mai vedere”. Alle domande dei soldati rispondiamo comunque in maniera esaustiva e mostriamo tutti i permessi; dichiariamo anche il pacco dono portato per ingraziarci il leader ribelle già conosciuto da padre Tarcisio e che dovremo incontrare di lì a poco. Nella scatoletta di cartone ci sono alcune fiale di un farmaco utilizzato per curare la sifilide, una malattia diffusa tra i guerriglieri, più alcune comuni batterie per la radio; è regalo utile perché le radioline sono l’unico strumento dei ribelli per ascoltare gli appelli alla pace delle autorità di Kampala e quelli dell’arcivescovo di Gulu, diffusi dalla stazione locale in inglese e in lingua acholi.
A controllo finito risaliamo in macchina e via. Dopo circa quaranta minuti la strada diventa un sentiero nella savana, tanto angusto da essere impraticabile in auto. Scendiamo e ci incamminiamo nell’erba alta, un po’ preoccupati: abbiamo scoperto che dovremo presentarci ai ribelli a mani vuote perché nel nostro pacco non ci sono più né le fiale né le batterie. Tutti e tre pensiamo che siano stati i soldati a rubarcele; le rivedremo comunque il giorno dopo a Gulu sul tavolo del responsabile dei servizi segreti.
Proseguiamo comunque il cammino coraggiosamente – è il caso di dirlo – fino al piccolo villaggio in cui è stato fissato l’appuntamento con il leader ribelle, ma quando arriviamo scopriamo che lui non c’è. La gente del posto ci dice che potremmo trovare gli olum in un villaggio vicino a mezz’ora di cammino. Ed è vero, i ribelli sono proprio lì.
Mentre ci avviciniamo alla meta sento di aver paura, lo confesso: conosco le gesta di questa gente che sa essere molto cattiva. Mi conforta comunque sapere che i miei due accompagnatori hanno già avuto modo di fare questo tipo d’esperienza nel passato, sempre con successo.

Al nostro arrivo padre Tarcisio è il primo ad aprire bocca e con una spontaneità disarmante. I ribelli, poco più che adolescenti, tutti i mimetica, ci fanno accomodare su tre sedie sotto un albero. A occhio e croce sono una quindicina. Vi sono anche alcune donne con dei bambini, forse le loro mogli con prole. Cinque uomini, o dovrei dire ragazzi, si siedono di fronte a noi su una panca, un sesto di fianco. Mi sembra il set di un film, tutto appare surreale e a tratti ho l’impressione di sognare ad occhi aperti.
Padre Tarcisio inizia l’incontro come se niente fosse, recitando una preghiera in lingua acholi, invoca “il vero Dio, perché il Signore converta il cuore degli uomini e possa concedere a questo paese la pace che tutti i figli e le figlie di Dio invocano da Lui”. Tocca a padre Carlos spiegare il motivo della nostra visita: un incontro assolutamente informale per stabilire un contatto che possa giovare al dialogo. L’idea degli ‘Acholi religious leaders’ in quella fase è incontrare dei piccoli gruppi di ribelli per sensibilizzarli e far loro capire che la guerra è una bestemmia, punto e basta. Padre Carlos tra l’altro riferisce agli olum del messaggio che era stato letto alla radio la settimana prima dal presidente Museveni e delle iniziative di pace dei capi religiosi.
A questo punto prendono la parola i ribelli e subito mi colpiscono alcuni passaggi. Parlando del loro fondatore, Kony, lo chiamano “grande maestro” e dicono che faranno solo quel che lui stabilirà. Assicurano di volere la pace, ma chiariscono che “il governo di Kampala deve rispettare i diritti della popolazione acholi”. “Ci vuole giustizia nel Paese”, puntualizza il più anziano (si fa per dire) di tutti, un giovanotto sulla ventina.
All’improvviso, un ribelle si alza e urla: “I soldati, i soldati, i governativi!” Seguono in un lampo raffiche di mitra interminabili e una pioggia di pallottole dappertutto; le capanne prendono fuoco e diventano roveti ardenti.
Restiamo sdraiati a terra, la testa di lato, contando a una a una le infinite scariche di fuoco. Le schegge volano e padre Carlos, che ha cercato rifugio sotto una capanna, viene colpito al braccio da un pezzo di tetto infuocato. Strisciando ci riuniamo tutti e tre sotto l’albero dove fino a pochi minuti prima stavamo parlando con gli olum, in attesa che i governativi ci riconoscano.
Urliamo a squarciagola: “Siamo missionari, non sparate”. I governativi ci sono addosso. Molti di quelli della prima linea, sbucati a sorpresa dall’erba, sono bambini di dieci-undici anni, militari regolari nonostante le promesse ufficiali di non arruolarne più.
I governativi ci puntano il mitragliatore alla testa e urlando ci accusano più volte di essere gente di al Qaeda: “Bastardi, trafficanti di armi, sporchi bianchi, sanguinari, vi faremo a pezzi”, dicono a squarciagola. Ci mettono a terra allineati e i due catechisti locali che ci accompagnavano come guide vengono presi a bastonate. Sentiamo intanto grida di bambini; ne vedo alcuni presi per le gambe dai soldati che li sbattono al suolo come fossero galline. Una donna, riversa sul terreno, sanguina, ma nessuno la soccorre. Ci tolgono con violenza i nostri pochi effetti personali e un soldato comincia a saltarci sulla schiena; un altro mi rifila anche qualche calcio. Un altro ancora, con fare saccente, accende una sigaretta per poi spegnerla sulla mia schiena.
I soldati ci urlano poi che dovremo attendere il loro comandante, ma che non abbiamo speranze. “You are going to be executed”, state per essere ammazzati, ci dicono in inglese.
Questa tortura va avanti per una quarantina di minuti. Ci guardiamo silenziosi, pensando al peggio, e parlando a bassa voce ci confessiamo l’un l’altro. Padre Tarcisio mi dice: “Giulio, credo che stavolta sia finita”. “Va bene”, rispondo, “preghiamo padre Raffaele di Bari, preghiamo i martiri di Paimol”. Mi vengono in mente tutti gli affetti, le persone care e anche padre Raffaele, il comboniano ucciso dai ribelli nel 2000, cui chiedo la grazia. Non so cosa sarà della mia vita, però provo un senso di grande abbandono e una calma, una freddezza inconsuete.
A un certo punto sbuca un ufficiale. Lo avevo conosciuto vent’anni prima a Kampala e mi riconosce; grazie a lui abbiamo salva la vita. Potete solo immaginare il sollievo, la gioia, quando ci dice che possiamo alzarci in piedi.
La nostra avventura è però tutt’altro che finita. Dobbiamo tornare nella missione, ma la macchina è lontana e non possiamo certo ripercorrere la strada di prima così i governativi ci ordinano di passare nell’erba alta, per sfuggire ai ribelli, e ci accompagnano. Camminiamo su tre file, noi padri al centro, ma non siamo certo tranquilli: forse ci ammazzeranno lungo il sentiero.
I soldati ci dicono che appartengono a un’unità mobile dell’esercito e che non erano stati informati del nostro incontro con i ribelli. Durante il percorso non ci consentono mai di bere, ma riesco a chiacchierare con uno di quei bambini-soldato al servizio del governo; mi racconta di essere stato catturato circa quattro mesi prima dai governativi e poi costretto a combattere nel Sudan meridionale contro i ribelli. Molti dei suoi compagni erano morti perché, come si usa con i minorenni, erano stati i primi a essere inviati all’attacco. Lui è un acholi e nonostante questo deve combattere contro gli acholi.
Camminiamo nella savana, sotto il sole, per otto ore più o meno e arriviamo alle caserme di Pagimu, a pochi chilometri da Kitgum. Veniamo fatti salire su una macchina fuoristrada. Siamo stanchissimi. Una volta a Kitgum invece di ricondurci alla missione cattolica i militari ci arrestano. A quel punto non ci vedo più. Chiedo gridando perché non ci riportano a casa, dato che non abbiamo fatto nulla di male. La mia urla cadono nel vuoto: non ho risposta. Ci rinchiudono invece in una capanna di quattro metri di diametro tutta di metallo, con una finestrella e una porticina. Ci tolgono le scarpe e gli indumenti eccetto i pantaloni. Chiediamo di nuovo un po’ d’acqua, ma niente da fare; potremo bere solo alle undici del giorno seguente.

La notte ci confessiamo di nuovo a vicenda e al mattino finalmente ci fanno uscire e ci portano, scalzi, dagli uomini dei servizi segreti militari appositamente arrivati da Gulu. Sono ufficiali più cortesi dei loro colleghi e ci permettono di rivestirci e di bere. Ci fanno molte domande e poco dopo ci trasferiscono in elicottero a Gulu dalle massime autorità militari locali, per nuovi interrogatori.
Ma ci sono molte questioni cui altri devono rispondere. Che cosa è successo? Perché siamo finiti tra due fuochi? Siamo stati usati per arrivare ai ribelli?
Secondo la versione ufficiale fornita da Kampala, l’unità mobile aveva sparato contro di noi perché le autorità competenti non erano state avvertite della nostra missione di pace. Monsignor Odama però smentisce ufficialmente, e la stampa locale dà eco alle sue parole, ricordando che le autorità di Kitgum erano state preventivamente avvisate come di consueto.
Alla fine ci viene detto che si era trattato di un “incidente”.
Noi ce la siamo cavata, ma rimane la tragedia di una popolazione ridotta allo stremo dalla guerra, una guerra invisibile che al massimo fa notizia – è triste ammetterlo – quando un manipolo di missionari viene sequestrato o ci rimette la pelle.
Oggi, a distanza di tempo, ripensando a quei tragici momenti, l’angoscia mi tormenta, quasi dovessi rivivere un incubo in diretta, un incubo che sembra protrarsi all’infinito nonostante in fondo quanto mi è accaduto sia un’inezia rispetto a ciò che subisce chi è esposto, da mattina a sera, a una violenza quotidiana fatta di uccisioni e altre nefandezze. Mentre scrivo, colgo il limite delle parole che in nessun caso riescono a ritrarre con efficacia un’esperienza che ha inciso profondamente nella mia esistenza. Un conto è parlare dei bambini soldato, altro è vederli all’opera; un conto è raccontare stando davanti a un terminale d’agenzia, altro è veder scorre il sangue, sentire il fetore dei cadaveri che rende l’aria irrespirabile.

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