Famiglia

Ue. La giungla degli uffici e delle competenze. Europa e coop: chi (non) decide cosa.

Nell’Unione manca un quadro normativo univoco sull’impresa sociale. Un problema che intralcia l’attività di lobbying. Anche per l’Italia.

di Matteo Manzonetto

Le attività legate all?economia sociale apportano un contributo consistente al sistema produttivo dell?Unione europea: il settore costituito da cooperative, fondazioni, associazioni, e mutue copre una fetta di oltre il 10% del mercato interno. A fronte di queste cifre e del riconoscimento del ruolo sociale, oltre che economico, di queste attività da parte delle istituzioni comunitarie, manca a Bruxelles e nel resto dell?Unione un quadro (sia normativo, sia rappresentativo) ordinato e chiaro. Infatti non esiste in Europa una definizione unitaria di Terzo settore, né un luogo istituzionale unico che possa accoglierne le istanze. Ogni ramo di attività cerca quindi di organizzarsi a suo modo e secondo gli interessi comuni di ciascuna famiglia di attività economico-sociali, cercando nei gangli delle istituzioni un interlocutore adeguato. Dove si inseriscono quindi le cooperative sociali nel marasma istituzionale-rappresentativo dell?Unione europea? Come illustrato dallo schema, le coop sociali fanno capo al Cecop, un?associazione senza fini di lucro di diritto belga costituita una decina d?anni fa, e il cui presidente è l?italiano Felice Scalvini. Questa sigla raccoglie sotto il suo ombrello non solo le coop sociali, ma anche quelle di lavoro e produzione e le imprese partecipative di tipo spagnolo. A sua volta, Cecop si situa sotto un ombrello ancora maggiore, quello del Ccace (Comitato di coordinazione delle associazioni cooperative europee, il cui vicepresidente è un altro italiano, Giuliano Poletti), il cui scopo è promuovere gli interessi dell?imprenditoria cooperativa, fungendo da punto di incontro e scambio tra le aree interessate (agricoltura, edilizia, coop sociali, mutualités, ecc.). Mettere insieme le cooperative di ogni tipo «è necessario per poter avere la massa critica sufficiente per fare pressione e lobbying in sede Ue», come spiega Enzo Pezzini dell?ufficio di Confcooperative a Bruxelles. «Un?azione frammentaria a Bruxelles è infatti il modo migliore per non ottenere ascolto». Il problema della rappresentatività unitaria in Europa tocca molti altri settori, che già in patria hanno difficoltà a mettersi d?accordo (come le associazioni dei consumatori). «In più», conclude Pezzini, «ci si trova a dover spartire l?attenzione dei funzionari comunitari e dei politici con gruppi di interesse più influenti e ricchi, come quelli dell?industria». Venendo alle sedi istituzionali dove le cooperative agiscono, troviamo in primis l?unità Artigianato, piccola impresa, cooperative e mutue della direzione generale Impresa della Commissione. La Commissione, da parte sua, ha riconosciuto il Ccace come interlocutore fin dalla sua nascita, così come hanno fatto il Parlamento e il Comitato economico e sociale, le altre due sedi istituzionali su cui insiste l?azione del Ccace. Inoltre, il 23 febbraio di quest?anno, la commissione Prodi ha diffuso una comunicazione per la promozione della cooperazione come sistema imprenditoriale per il rilancio dell?economia europea. Nel documento viene riconosciuto l?importante ruolo economico delle cooperative, e si ribadisce la volontà di compiere dei passi nella direzione di un uso più largo della cooperazione imprenditoriale in Europa, tramite il miglioramento delle legislazioni nazionali in materia e un più consistente contributo del settore alle politiche comunitarie. La comunicazione va nella stessa direzione della normativa sulle società cooperative di tipo europeo, adottata dal Consiglio dei ministri Ue nel 2003, e che ha tre anni di tempo per essere recepita nelle legislazioni nazionali. Al Parlamento europeo si attende invece la ricostituzione dell?intergruppo parlamentare sull?Economia sociale, già esistente nella precedente legislatura. Al momento ci sono alcuni ostacoli politici da superare, in quanto non si è ancora raggiunto il numero sufficiente di gruppi parlamentari aderenti. La sua creazione potrebbe contribuire alla creazione di fondi per finanziare progetti di economia sociale, che oggi si riducono ai programmi Equal e al Fondo sociale europeo. Come fa notare Dorotea Daniele di Diesis, struttura europea con sede a Bruxelles per la ricerca e l?informazione su cooperazione sociale e Terzo settore, «per migliorare la situazione c?è bisogno di maggiore chiarezza. Quando ad esempio la Commissione chiede dati statistici sul Terzo settore per valutarne l?importanza, questi sono difficili da estrapolare perché i confini tra un ramo d?azione e l?altro sono nebulosi». In ogni modo, sul futuro di queste linee di finanziamento pesa l?incognita della programmazione budgetaria: non sia sa ancora quanti soldi i governi dei 25 vogliano investire dal 2007 al 2013, se l?1 o l?1,24% del loro Pil.


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