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UE-Africa: La Valletta, il Summit della discordia
L’UE e i suoi partner africani si daranno appuntamento l’11 e il 12 novembre a Malta per un Summit sulle migrazioni dagli esiti molto incerti. In esclusiva, Vita.it rivela la bozza d’accordo tra le due parti che prevede un Piano d’azione in cui la lotta contro l'immigrazione irregolare e il rafforzamento dei rimpatri prevalgono sulla mobilità.
L’11 e il 12 novembre, l’Unione Europea e i suoi partner africani si daranno appuntamento a La Valletta per un Summit straordinario sulle migrazioni. A Malta sono attesi capi di stato e di governo di 28 Stati membri UE, 35 paesi africani, rappresentanti dell’Unione Africana, dell’ECOWAS e delle Nazioni Unite. Il Vertice, fortemente voluto da Bruxelles, è chiamato a dimostrare che UE e Africa sono uniti nella volontà di rafforzare il dialogo e la cooperazione euro-africana sulle migrazioni. Concretamente significa combattere il traffico illegale e la tratta dei migranti, migliorare la cooperazione in tema di rimpatri e riammissioni dei migranti irregolari nei paesi africani di origine, promuovere vie di migrazione legali e la mobilità, proteggere i migranti e i richiedenti di asilo e affrontare il problema alla radice sostenendo ogni iniziativa a favore della pace, della stabilità e dello sviluppo sostenibile sul continente africano. Questo per quanto riguarda l’agenda ufficiale.
Dialogo o monologo?
A livello operativo, il Summit di La Valletta è preceduto da una serie di meeting preparatori di alto livello a Bruxelles (18 settembre), Rabat (14 ottobre) e Sharm El Sheikh (oggi). La scelta di queste due città africane non è casuale. Il dialogo avviato dall’UE con i paesi africani sulle migrazioni segue due traiettorie politico-geografiche: il Processo di Rabat lanciato nel luglio 2006 con un focus che si è progressivamente spostato sul Sahel e l’Africa occidentale, e di cui il Marocco ha assunto il ruolo di leader della controparte africana; e il Processo di Khartoum, ufficializzato a Roma nel novembre 2014 dall’UE e una ventina di paesi africani (tra cui Sudan Eritrea, Somalia) per rafforzare la cooperazione tra paesi di origine, di transito e di destinazione, dal Corno d’Africa all’Europa, passando per l’Egitto, che capeggia la delegazione africana.
Di dialogo se ne vede ben poco, qui è un monologo dell’UE che non fa altro che voler imporre la sua agenda.
Fonte dell’Unione Africana
Proprio in queste ore in Egitto europei e africani si incontrano per l’ultima volta prima del vertice. Alla vigilia di questo incontro tra alti responsabili, Vita.it è entrata in possesso della bozza di accordo che verrà discussa a Sharm El Sheikh. Salvo sorprese, sempre possibili, i punti essenziali dei documenti che potete scaricare in fondo a questo articolo verranno adottati a Malta. Frutto di trattative intense, racchiude sia la dichiarazione finale che un Piano d’azione in cinque punti su cui l’UE e i partner africani stanno provando a raggiungere un accordo definitivo. Ma quanta fatica. Nonostante parole di rassicurazione provenienti da Bruxelles, dalla sponda africana c’è parecchia insoddisfazione.
Contattata da Vita.it, una fonte dell’Unione Africana molto vicina al dossier assicura che “di dialogo se ne vede ben poco, qui è un monologo dell’UE che non fa altro che voler imporre la sua agenda”. E in particolar modo gli Stati membri, alcuni dei quali come l’Austria, la Polonia o la Lituania vorrebbero condizionare gli aiuti allo sviluppo ad uno sforzo reale dei governi africani per accogliere i migranti illegali rimpatriati dall’UE nei loro paesi di origine. E’ la logica del “more for more, less for less” (che tradotto nel contesto di La Valletta potremmo tradurre con: “più aiuti in cambio di maggiori sforzi sui rimpatri, meno aiuti se questi sforzi non vengono forniti”), che viola un principio sacrosanto dei nuovi Obiettivi di sviluppo sostenibile che gli stessi Stati europei hanno sottoscritto in settembre alle Nazioni Unite, secondo il quale gli aiuti non dovrebbero essere condizionabili in circostanze simili. Una violazione che l’Italia era sul punto di commettere lo scorso anno durante la fase preparatoria dell’agenda post-2015 e soprattutto durante la riforma della cooperazione italiana quando il ministro degli Interni Alfano voleva a tutti i costi inserire nella legge 125 un principio di condizionalità degli aiuti italiani alla crisi migratoria, senza riuscirci.
La mobilità, malgrado tutto
La linea politica adottata da parecchi governi europei è quella incentrata sulla necessità di frenare a tutti i costi i flussi migratori provenienti dall’Africa in Africa e di accelerare le misure di rimpatrio. In un bozza precedente datata 26 agosto 2015 e che Vita.it ha in suo possesso, i commenti di alcune diplomazie UE lasciano poco spazio ai dubbi: tante sono le indicazioni a favore dell’approccio “more for more”, del rafforzamento delle politiche di rimpatrio e di riammissione nei paesi di origine o di azioni contro il traffico di migranti e la tratta di esseri umani sul continente africano, per citarne alcune.
A fare da “mediatori” tra gli Stati Membri europei più refrattari e quelli africani coinvolti nel Summit, ci pensano la Commissione europea di Juncker, il Servizio di azione esterna di Federica Mogherini e Pierre Vimont, inviato speciale del Presidente del Consiglio UE, Donald Tusk, per la preparazione del Summit di La Valletta. Il loro lavoro sembra aver dato alcuni frutti. Nonostante la volontà di alcuni Stati membri UE di voler ridimensionare la promozione di canali legali per la migrazione e la mobilità, nell’ultima bozza quest’ultima risulta al secondo punto sui cinque menzionati nel Piano d’azione. “E’ un segnale incoraggiante”, sostiene Anna Knoll, policy officer presso lo European Centre for Development Policy Management (ECDPM), uno dei think tank europei più influenti sulle relazioni UE-Africa. “L’altro segnale positivo riguarda le raccomandazioni e gli impegni che per la prima volta appaiono alla fine di ogni punto del Piano d’azione. Detto questo, questi impegni rimangono ancora troppo generici”. Se non deludenti. Nel caso della mobilità, si parla soltanto di “raddoppiare entro alla fine del 2016 il numero di borse di studio da concedere agli studenti e al corpo accademico africani”, nonché avviare dei progetti pilota che accomunano offerte di migrazione legale (per lavoro, studio, ricerca e formazione professionale) da parte di alcuni Stati membri dell’UE o paesi associati a quelli africani, facilitando di conseguenza il rilascio di visti. “In quest’ultimo caso sorgono delle contraddizioni con i negoziati che l’UE sta ad esempio portando avanti con la Turchia, un paese associato dell’UE e di transito per i migranti”, sottolinea Knoll. “Di recente, Bruxelles ha infatti chiesto ad Ankara di limitare fortemente il rilascio di visti concessi agli africani”, che poi rischiano di approdare nello spazio europeo.
Un accordo e tante contraddizioni
Ma nel dialogo con l’Africa, l’Unione Europea non può limitarsi ad alzare muri alle proprie frontiere. Non a caso, il primo punto riguarda il rafforzamento degli aspetti positivi della migrazione (riducendo ad esempio del 3% entro il 2030 i costi di transazione delle rimesse dei migranti, il cui volume di fondi è ormai superiore agli aiuti allo sviluppo) e la necessità di affrontare le crisi che alimentanto l’immigrazione irregolare e gli spostamenti forzati degli africani (conflitti, povertà, catastrofi climatiche). Con un budget pari a 1,8 miliardi di euro, il nuovo Fondo di emergenza fiduciario per l’Africa mira “a favorire la stabilità sul continente africano e a rafforzare la lotta contro le cause stutturali della migrazione illigale africana”, sostiene Alexandre Polack, portavoce della Commissione Ue con delega allo sviluppo e agli aiuti umanitari. Ma le decisioni adottate questa settimana dal Consiglio europeo degli Esteri (Sviluppo) sul Fondo fiduciario hanno destato molte perplessità nel mondo delle Ong. “Nessuna conferma è infatti giunta dai Ministri dello sviluppo Ue che il Fondo sarà effettivamente usato per progetti di sviluppo, invece che per la sicurezza delle frontiere e per il contenimento della mobilità delle persone”, accusa Oxfam Italia.
Nel punto tre del Piano d’azione, si intende promuovere la protezione delle persone sfollate e dei richiedenti di asilo nei paesi africani, special modo quelli che rimangono intrappolati per anni in campi profughi simili a quello di Dabaab, in Kenya, che oggi accoglie oltre 300mila persone in fuga dalla guerra e dalla povertà, mentre il quarto punto è interamente dedicato alla lotta contro l’immigrazione illegale, la tratta di migranti e il traffico di esseri umani. Contrariamente all’agenda politica portata avanti dall’UE contro i migranti economici che vogliono entrare nel territorio europeo, in Africa si vuole proteggere e assistere i “migranti in difficoltà e vulnerabili”, indipendemente dai motivi per cui sono emigrati. Altra sorpresa: emerge nero su bianco la volontà di “facilitare l’accesso a un’informazione adeguata e credibile sui pericoli dell’immigrazione irregolare e diffondere una visione realistica delle condizioni di vita nei paesi europei” attraverso “campagne d’informazione nei paesi di origine, di transito e di destinazione”. Se nel primo caso denunciare il rischio di andare incontro alla morte è opportunoi, molto più incerta appare la possibilità di convincere un potenziale migrante che vuole fuggire dalla miseria o dalla guerra che l’Europa non è più un eldorado. Peggio, questo approccio sottintende che è meglio non diffondere in Africa le success stories delle diaspore africane presenti in Europa, con buona pace di chi in queste diaspore alimenta le rimesse e quindi lo sviluppo del continente africano, contribuendo nel contempo a rimpinguare le casse degli Stati europei attraverso le tasse e i contributi. Se una logica sottintende questo accordo, perché non inserire al punto uno, laddove si vuole rafforzare gli aspetti positivi della migrazione, l’idea di promuovere vaste campagne d’informazione per sensibilizzare le opinione pubbliche europee ed africane sui valori aggiunti delle diaspore in Europa e in Africa? Dulcis in fundo, il Piano d’Azione fa finta di ignorare che a fronte di un calo demografico drammatico, l’Europa avrà bisogno di 42 milioni di ‘nuovi europei’ entro il 2020. Cioè domani. Una missione che solo l’approdo di nuovi migranti può rendere possibile.
Scontro frontale su rimpatri e riammissioni
Ma il piatto forte arriva con l’ultimo punto, quello relativo ai rimpatri e alle riammissioni dei migranti in situazione irregolare nello spazio UE, ma anche in Africa. Qui lo scontro con i partner africani è stato frontale. Non solo per i tentativi di ricatto di alcuni Stati membri europei nel voler vincolare gli aiuti allo sviluppo alla crisi dei migranti con la logica del “more for more, and less for less” (sparita tra l’altro nell’ultima bozza di accordo), ma anche per la sensazione di molti paesi africani di essere messi con le spalle al muro. Nel tentativo di “rafforzare la capacità delle autorità dei paesi di origine di rispondere in tempi celeri alle domande di riammissione”, Bruxelles aveva chiesto in un primo tempo ai suoi partner africani di riconoscere un lasciapassare europeo che consentisse di rimpatriare un migrante irregolare, senza dare il tempo ai paesi partner di procedere alle dovute verifiche sulla nazionalità. Peggio, voci di corridoio hanno evocato la volontà dell’UE di procedere a rimpatri in paesi frontalieri a quello di origine del migrante africano espulso, qualora fosse trascorso troppo tempo durante la fase di espulsione. Già, perché i migranti costano. Nella bozza, oggi appare chiaro che l’identificazione dei migranti è la condizione sine qua non per organizzare i rimpatri. Più sorprendente invece è l’impegno di entrambe le parti di “organizzare missioni di funzionari africani nei paesi europei per verificare e identificare le nazionalità dei migranti irregolari che non necessitano di una protezione internazionale, con lo scopo di rimpatriarli”. Le prime missioni di identificazione sono previste nel primo semestre del 2016 con almeno 10 paesi africani.
Le Ong europee rimproverano all’UE di trattare il regime eritreo come se fosse un partner quando invece è una dittatura.
Francesco Petrelli (Concord Italia)
E se tra questi paese ci fosse l’Eritrea, guidato da un regime – quello del Presidente Afeworki – noto per essere uno dei più feroci al mondo? In questo caso, appare difficile immaginare la presenza a Lampedusa di funzionari eritrei giunti in Italia per verificare se i migranti che si spacciano per loro connazionali lo sono davvero. Se si scopre che si ha che fare con un cittadino eritreo in fuga dal suo paese per motivi economici anziché politici, che cosa gli accade? In tal caso, il ritorno in madrepatria diventa molto rischioso. Da tempo poi, “le Ong europee rimproverano all’UE di trattare il regime eritreo come se fosse un partner quando invece è una dittatura”, sostiene Francesco Petrelli, portavoce di Concord Italia. Già, ma ad Asmara qualcuno sa trarre il massimo beneficio del dialogo con gli europei. Come fa notare una fonte diplomatica a Bruxelles, “facendo fuggire oppositori politici e attivisti dei diritti umani, il governo di Afeworki prende due piccioni con una fava: da un lato indebolisce il fronte dei contestatori all’interno del suo paese, dall’altro gli eritrei esiliati alimentano le rimesse verso l’Eritrea”.
Il caso eritreo riassume bene il livello di complessità che caratterizza il dialogo tra UE e Africa sulle migrazioni. E i rischi di scontro sono dietro ogni angolo. “Fondamentalmente, europei ed africani sembrano parlare due lingue diverse”, sostiene una fonte delle Nazioni Unite. “I primi, special modo gli Stati membri, vogliono concentrare gli sforzi sulla sicurezza alle frontiere e i rimpatri, mentre gli africani chiedono più cooperazione sulla mobilità, sia interna che dall’Africa verso l’Europa”. Inoltre, gli europei vorrebbero istituire i “centri di ricezione” in Africa per selezionare i migranti e avviare le eventuali pratiche di riconoscimento dello status di rifugiato internazionale, ma gli africani si oppongono. Per motivi diversi, si oppongono pure le ong che ricordano i trattamenti disumani subiti dai migranti in Libia nell’era Gheddafi, in un’epoca non tanto lontana in cui Berlusconi (con il benestare dei leader UE) aveva fatto un patto con il raiss per fermare i candidati all’emigrazione sulle coste libiche. Dal canto loro, gli africani chiedono che i rimpatri siano volontari, ma in questo caso sono gli europei a dire di no.
Una strada ancora in salita
Un altro elemento di discordia è la scelta dell’organizzazione incaricata di dirigere il Segretariato del Processo di Khartoum per facilitare la sua implementazione. L’UE ha imposto a capo di questo Segretariato l’International Centre for Migration Policy Development (ICMPD), un’organizzazione intergovernativa messa in piedi da 15 paesi europei nel 1993. Ma l’Egitto, leader del fronte africano, non ci sta, accusando l’ICMPD di non aver nessuna presenza in Africa sub-sahariana, e quindi nessuna legittimità per assumere questa funzione. Sarà questo uno dei motivi per cui il regime egiziano non ha ancora confermato la sua presenza a La Valletta? Finora, sui 35 paesi africani chiamati a partecipare al Summit, 24 hanno detto sì. Molti i presidenti attesi a Malta, con alcune delegazioni che si annunciano folte (è il caso del Sudan che si presentetà con il ministro degli Esteri e quattro altri ministri). Ma mentre mancano appena due settimane al Vertice, oltre alla non conferma dell’Egitto spicca quella di due pesi massimi del continente africano: il Marocco (all’EEAS assicurano che si tratta di un ritardo legato alla personalità che il governo marocchino intende inviare a Malta) e la Nigeria.
E’ soprendente leggere nella bozza d’accordo che il primo incontro di alto livello per verificare l’implementazione del Piano d’azione avverrà soltanto nel 2017.
Anna Knoll (ECPDM)
Insomma, la strada è ancora tutta in salita. Non solo verso La Valletta, ma anche dopo. “E’ soprendente leggere nella bozza d’accordo che il primo incontro di alto livello per verificare l’implementazione del Piano d’azione avverrà soltanto nel 2017”, fa notare Anne Knoll dell’ECDPM, che poi ricorda “come un Piano d’Azione triennale fosse già stato adottato nel 2014 durante l’ultimo Summit UE-Africa che si è tenuto a Bruxelles. Ma da allora si è fatto poco o nulla, anche per mancanza di volontà da parte degli Stati membri dell’UE”. L’Italia avrebbe un ruolo importante da giocare nel nuovo Piano d’Azione, ma dalle informazioni raccolte a Bruxelles non sembra che Roma risulti particolarmente attiva in questo momento. Un peccato se si pensa che il governo italiano è stato uno dei grandi protagonisti del lancio del Processo di Khartoum. Sul fronte opposto, i governi africani dovrebbero farla finita con i colpi di Stato (Burkina Faso) e le continue violazioni dei diritti umani (dal Burundi allo Zimbabwe, passando per l'Eritrea), e migliorare il livello di governance. Questo il sentimento diffuso tra i governi europei, sempre più attenti a giustificare i soldi dei contribuenti UE spesi a favore dello sviluppo e della stabilità politica del continente africano.
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