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Tutto quel silenzio sulla sorte di Teresa

di Redazione

A meno di clamorose sorprese dell’ultimo momento, Teresa Lewis, “dead woman walking”, sarà “giustiziata” a 40 anni, in Virginia, Stati Uniti d’America, il 23 settembre. È colpevole di aver ordinato l’assassinio di suo marito (nell’agguato uccisero anche il figlio maggiore, il 30 ottobre 2002), avvalendosi di due killer. Ha ammesso i fatti, ha collaborato alle indagini facendo arrestare gli esecutori materiali dell’omicidio. C’è però un particolare: il quoziente di intelligenza di Teresa è bassissimo, ai limiti dell’handicap psichico. E i suoi difensori hanno provato che le sue condizioni mentali, prima del delitto, erano ulteriormente aggravate dall’uso di antidolorifici. Tuttora Teresa è sicuramente una persona con forti problemi mentali, e, dalle indagini, risulta che proprio su questa sua debolezza avrebbero fatto leva i killer, nella speranza di appropriarsi del premio dell’assicurazione sulla vita. Una storia drammatica, un destino segnato. In Virginia non si esegue una condanna a morte da cento anni. Ho firmato l’appello lanciato da Amnesty International per salvare Teresa Lewis. Ho firmato esattamente come avevo messo la mia firma in calce all’appello per la donna iraniana Sakineh, la cui lapidazione è stata sospesa. Ma mentre attorno alla vicenda di Sakineh si è realizzata, sia pur tardivamente, una vasta mobilitazione, la storia di Teresa Lewis sembra confinata in sordina fra i tanti appelli contro la pena di morte negli Stati Uniti. Credo che sia sbagliato, proprio perché, a differenza dell’Iran di Ahmadinejad, gli Usa sono una grande democrazia e un Paese a noi tanto vicino. La pena di morte è orrenda e ingiusta sia che avvenga per lapidazione, sia che si scelga un ago carico di veleno. Inutile dire che, nei confronti di Teresa Lewis, c’è anche una palese violazione della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. Ma non c’è bisogno di cercare solidarietà facendo leva sulla disabilità. È solo un’aggravante cinica e spietata.

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