Spesso il mondo della disabilità si pone con un atteggiamento rivendicativo che fa leva sul senso del dovere, di responsabilità, quando non addirittura di colpa per poter conseguire il rispetto dei propri diritti. Radicalmente diverso e, a mio avviso, molto più fecondo e interessante, è l’approccio che emerge dal progetto “Inclusione sociale e disabilità” promosso da Anffas Lombardia. Infatti, proprio perché spesso emarginato, il mondo della disabilità rappresenta un punto d’osservazione estremamente fecondo per cogliere alcuni limiti strutturali della nostra società e individuare contraddizioni che negano la dignità di tutti i cittadini, indipendentemente dal grado della loro diversità.
Innanzitutto, grazie all’esperienza quotidiana, diventa abbastanza semplice denunciare come le tanto declamate regole del gioco non siano affatto neutrali, ma favoriscano soggetti con alcune particolari caratteristiche a scapito di altri. Ne consegue che la tutela della libertà di tutti i cittadini, indipendentemente dal loro grado di disabilità, non può essere garantita da un astratto rispetto di tali regole come un liberismo ingenuo di matrice anglosassone ha per lungo tempo proclamato, ma dipende da ben altri approcci che non eludano il tema dell’inclusione.
Un altro aspetto che questo mondo denuncia con particolare forza è la tendenza da parte della società di impedire ai disabili di diventare adulti: essi sono considerati come eterni ragazzi che, indipendentemente dalla loro età, devono essere trattati come dei minori incapaci di elaborare un proprio progetto di vita. Queste constatazioni riportano immediatamente alla memoria la descrizione che Alexis de Tocqueville fece del dispotismo moderno. L’autore francese lo presenta infatti come un immenso potere tutelare che “lavora volentieri al loro benessere, ma vuole esserne l’unico agente e regolatore; provvede alla loro sicurezza ed assicurare i loro bisogni, facilita i loro piaceri, tratta i loro principali affari, dirige le loro industrie, regola le loro successioni, divide le loro eredità”.
Questo potere mite che assomiglia ad un padre, tranne che mentre quest’ultimo opera per aiutare il proprio figlio a diventare adulto, mira a conservarlo nello stato di minore, è forse il più grande rischio per la libertà in un regime democratico moderno. Sviluppare modalità operative e politiche che possano contrastare una simile deriva diventa quindi fondamentale per garantire i diritti della persona. Il mondo della disabilità, grazie al suo particolare punto di osservazione, è in grado di sviluppare una particolare sensibilità a questo rischio. Le indicazioni e i suggerimenti che esso potrà sviluppare non sono quindi solamente importanti per i disabili, ma diventano fondamentali per tutti i cittadini e la loro libertà.
Infine, se la persona cosiddetta normale può illudersi di potersi autodeterminare fuori da un contesto relazionale, il disabile può meglio di ogni altro smascherare tale abbaglio. L’autodeterminazione dipende necessariamente dal contesto e dalle relazioni nelle quali ognuno di noi è chiamato ad operare. Senza un processo inclusivo che rispetti a valorizzi la nostra specificità, che ci aiuti a sviluppare un nostro progetto di vita, siamo necessariamente schiacciati sul presente, costretti a normalizzare il nostro modo di essere e finiamo per essere eterodiretti da una società che tanto si agita, ma che è incapace di rispondere alle nostre esigenze più vere.
Per combattere tale involuzione le parole d’ordine di inclusione, relazioni, coesione sociale, senso di appartenenza non solo sono totalmente condivisibili, ma rispondono ai bisogni più profondi di ogni essere umano. Esse, infatti, proprio come il dono che le rende vive, hanno come finalità ultima quella di rendere umano l’umano curando le patologie di una società che è illusorio sperare di sanare solo con un, peraltro sempre più problematico, aumento del PIL.
È questa una prospettiva particolarmente interessante, anche per il mondo della filantropia istituzionale. Non si tratta più infatti di finanziare nuovi servizi sempre più sofisticati e costosi, ma piuttosto di trasformare i luoghi di cura in luoghi sociali e fare in modo che ogni nuova struttura che venga realizzata (dai giardini pubblici alle varie tipologie di servizi sociali) sia fondata sui principi della progettazione universale e dell’accomodamento ragionevole, così da creare comunità sempre più inclusive. Si tratta di obiettivi facilmente perseguibili con ridotti contributi aggiuntivi di cui gli enti filantropici potrebbero farsi carico, conseguendo così un impatto considerevole e qualificante per il futuro della nostra società.
L’approccio prospettato dalle linee guida raccolte in un apposito volume per dare tutelare la dignità dei disabili appare quindi la soluzione più corretta per tutelare la dignità di ogni essere umano. La lotta che essi portano avanti acquista quindi un significato universale, perché i loro diritti si identificano con quelli di qualsiasi altro essere umano, che solo così potrà vedere tutelate le proprie specificità. L’unica differenza è che, proprio grazie alla loro disabilità, essi hanno sviluppato una particolare sensibilità in grado di cogliere quei rischi per la libertà che sono presenti nella nostra società di cui non sempre i normodotati sono pienamente consapevoli. Partecipare alla loro lotta non significa più semplicemente adempiere ad un giusto dovere morale, ma diventa una delle vie più feconde per riaffermare la nostra umanità e vivere quei principi senza i quali la nostra esistenza si riduce ad una continua lotta per soddisfare in modo effimero effimeri bisogni.
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