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Tutti in Classe
Nelle sale italiane arriva la Palma d’oro di Cannes. Le riflessioni di un giornalista che a Belleville è cresciuto
?Insultare un professore, passare le ore a smanettare il cellulare in classe o urlare al mondo intero che la scuola non serve a un c… Con il corpo insegnante costretto a ripararsi dietro barricate di parole e gesti inascoltati. Anche nelle peggiori delle profezie, nessuno in Francia si sarebbe sognato un destino così crudele per la gloriosa scuola repubblicana. Dalla sua esperienza di professore di francese, François Bégaudeau ha tratto un giornale di bordo, Entre les murs che, dopo il successo in libreria, è diventato un film che è valso al regista Laurent Cantet l’ultima Palma d’oro a Cannes.
Nel film Cantet affronta tutte le contraddizioni di cui vive il mondo scolastico francese, tra il desiderio di non escludere i più deboli e quello di mantenere la disciplina, tra riconoscimento della diversità e insegnamento di un’unica cultura. La classe (così il titolo italiano) mette a confronto due mondi. Da un lato, un insegnante (che poi è Bégaudeau che interpreta se stesso), tra i 30 e i 40 anni, di sinistra e probabilmente segnato dagli esiti fallimentari delle battaglie civili che hanno caratterizzato la Francia negli anni 80. Dall’altro, 25 studenti sui 13-14 anni, in stragrande maggioranza appartenenti alla seconda, se non alla terza generazione di immigrati, pieni di rancore nei confronti delle discriminazioni razziali che minacciano la nation française e per questo consci che le parole «Liberté, égalité, fraternité» iscritte sul frontone del Lycée Jean-Jaurès, a Belleville, cambiano valore a seconda del colore della pelle.
C’era una volta Belleville
La mia pelle è bianca. A differenza dei protagonisti del film, non ha mai provocato l’animosità dei miei compagni di scuola. Almeno non durante i sedici anni che ho trascorso nel quartiere popolare di Monsieur Malhaussène. Sono cresciuto nelle aule del Lycée-Collège Voltaire frequentando ragazzi e ragazze di origine africana, arabo-musulmana, europea ed asiatica. Prima di essere neri, bianchi, ebrei o arabi, eravamo Joseph, Ahmed, Claire, Pierre, Kostia, Felipe, Ivan o Boubacar. Certo, nel mucchio le disparità sociali emergevano in maniera piuttosto netta, ma la povertà che poteva segnare gli africani o i maghrebini non era mai stata veramente fonte di tensioni.
Eravamo agli inizi degli anni 80. La classe operaia bianca, ancora maggioritaria a Belleville, era rimasta al riparo della crisi economica. Tutto sommato le famiglie potevano stare tranquille. Mitterrand faceva da garante della coesione sociale e Le Pen non faceva paura a nessuno. Né a Parigi né in banlieue. Le manifestazioni lanciate nel 1983 da Sos Racisme erano il primo avvertimento contro i sentimenti razzisti che stavano germogliando tra una minoranza di francesi. All’epoca la violenza urbana era incarnata da bande giovanili, ragazzi maghrebini tra i 15 e i 18 anni con alle spalle un fallimento scolastico che li spingeva a praticare di tanto in tanto il racket all’uscita dei principali licei parigini. Il loro bottino si riduceva a pochi spiccioli, scarpe Nike, sciarpe Louis Vitton, orologi Swatch e giacche Adidas. Queste le uniche paure che ricordo.
Zizou e Tigana
Sono convinto che a salvarci sia il fatto che la Storia non aveva intaccato il nostro mondo. Basta un esempio: il calcio. Tra i ragazzi del film di Cantet, alcuni cercano di provocare il loro prof sostenendo che Zidane, star calcistica di famiglia algerina e cresciuto nella periferia marsigliese, non è un’icona francese, bensì maghrebina. L’insegnante si difende come può, sostenendo più o meno che Zizou è un tesoro nazionale. In classe si scoppia a ridere. Il confronto mette in difficoltà Bégaudeau, chiaramente impotente di fronte alla logica impietosa della Storia. Oggi è lei a dettare i rapporti di forza. Per i ragazzi di origine araba, Zizou incarna la rivincita dei maghrebini contro il potere coloniale francese e le politiche di esclusione sociale di cui i figli di immigrati sono oggi le vittime principali. Il tentativo dei media e dei poteri pubblici di appropriarsi del trionfo della nazionale “Black, Blanc, Bleu” ai Mondiali di calcio del 1998 per farne un simbolo di successo dell’integrazione sociale, era votato al fallimento.
Io ripenso alla nazionale del 1982, quella che poteva vantare fenomeni assoluti come Platini, Tigana, Giresse o Marius Trésor. Neri o bianchi non faceva differenza. Per me e per i miei compagni di scuola, erano francesi. Punto e basta. Del resto, ci eravamo abituati a idolatrare calciatori extracomunitari come Mustapha Dalheb (in forza al Paris-Saint-Germain). Le disparità sociali non avevano voce in capitolo quando si parlava di calcio. Oggi non più. Tra il crollo del Muro di Berlino e quello delle Torri Gemelle, le identità hanno preso il sopravvento sulle ideologie. Tra le mura, i nemici hanno cambiato pelle. E se prima l’insegnante era paragonato a una sorta di ambasciatore dei valori repubblicani da rispettare, oggi assomiglia a un eroe senza gloria, un reduce di guerra tradito dai suoi generali.
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