Sostenibilità
Tutti i segreti di un cohousing di successo
Liat Rogel, fondatrice di Housing Lab presenta l'edizione 2017 della fiera dell'abitare collaborativo Experimentdays, «un modo che prende in considerazione gli abitanti e le loro esigenze e mette in loro funzione i servizi e gli spazi utili per la gestione della vita quotidiana, del lavoro flessibile e della socializzazione: ogni abitazione in cohousing è un piccolo laboratorio dell’abitare». L'intervista
di Redazione
Co-abitare, co-progettare e co-costruire, sono questi i tre verbi della filiera dell’abitare collaborativo che dal 23 al 24 giugno a Milano coniugheranno la terza edizione di Experimentdays, «la fiera della casa nell’era dell’economia collaborativa» nata in Germania e importata in Italia da Housing Lab. L’anima e la fondatrice di questa piccola, ma vivacissima associazione nata a Milano è Liat Rogel. Rogel, oltre a essere uno dei massimi esperti in Italia di cohousing, insegna design sociale a Naba, design dei servizi presso Polidesign e innovazione social ad IesAbroad Milano.
Primo punto, la definizione: cos’è il cohousing?
Il cohousing prende in considerazione gli abitanti e le loro esigenze e mette in funzione loro i servizi e gli spazi co utili per la gestione della vita quotidiana, del lavoro flessibile e della socializzazione: ogni abitazione in cohousing è un piccolo laboratorio dell’abitare.
Qualche esempio?
Base Gaia a Milano. A Torino c’è cohousing Numero Zero, a Fidenza Cohousing Ecosol, a San Lazzaro, cohousing Mura San Carlo e altri ancora di cui parleremo diffusamente durante Experimentdays.
Rispetto alle prime edizioni, il numero degli espositori è ridotto. Perché?
Abbiamo fatto una scelta precisa: quella di dare un’immagine più definita del perimetro dell’abitare collaborativo e sociale. Per esempio negli anni scorsi abbiamo ospitato stand dedicati al risparmio e alla sostenibilità energetica in condominio. Un tema con importanti risvolti economici e ambientali, ma non prettamente sociali.
Presenterete il primo censimento sull’abitare collaborativo in Italia. Quante esperienze si contano nel nostro Paese?
Noi ne abbiamo registrate 40 con le caratteristiche coerenti con la de- finizione, concentrate soprattutto al Nord. Queste le evidenze più significative: 20 abitazioni si definiscono cohousing, l’85% delle unità (ovvero gli appartamenti) sono in proprietà. Il 20% degli abitanti sono over 65 e il 40% single. Il 75% delle abitazioni condividono il giardino e quasi la metà hanno un orto.
Il dato dei single mi sembra rilevante. Il cohousing è una soluzione per famiglie mononucleari?
Certo, perché pur avendo apparta- menti piccoli possono contare su spazi comuni ampi dove invitare amici per esempio. Ma se dovessi indicare la tipo- logia più ricorrente è quella delle giova- ni famiglie con figli. Sono poco rappresentati invece i giovani senza figli o non ancora in coppia: credo si spieghi con la mancanza di soluzioni in affitto. Questo sarà uno dei temi della due giorni di Milano. Per ora l’unico format in loca zione è quello della proprietà indivisa a canone agevolato. Una soluzione di matrice cooperativa, che vale circa il 50% del perimetro dell’abitare collaborati- vo (e spesso sono quelli che, pur essendolo, non si definisco cohousing). Eppure questa sarebbe una formula molto appetibile anche per gli anziani, spesso soli, che non hanno la prospettiva di in- vestire su una nuova casa, ma sono interessati a fruire di tutti i servizi tipici di questo modo di abitare. Qui a Mila- no l’amministrazione con l’assessore alla Casa Gabriele Rabaiotti sta dimostrando grande attenzione.
Qualche esempio di servizi condivisi?
Il meccanismo è simile a quello del mutuo aiuto, in un contesto strutturale che favorisce l’incontro e la conoscenza fra i condomini. Fra i servizi più diffusi le posso citare i turni fra i genitori per l’accompagnamento a scuola dei bambini (il cosiddetto pedibus) oppure l’utilizzo condiviso di oggetti (dalla scala al trapano) fino al car sharing condominiale. Poi ognuno si tara sulle sue esigenze.
Quali invece gli ambienti comuni che non possono mancare?
Ne cito quattro: la stanza multifunzionale in cui fare feste o tenere corsi e riunioni. La lavanderia. La sala per i giochi dei bambini. Il giardino oppure l’orto. Non esistono regole d’accesso generali. Ogni condominio decide se lasciare l’utilizzo gratuito oppure se stabilire una quota da versare su un conto comune.
C’è chi sostiene che il couhousing ha costi spesso più alti di altre soluzioni abitative. Conferma?
Non direi, anzi noi abbiamo una fotografia di redditi medi o medio-bassi. Una volta messa in pista è una macchina che produce risparmi tipici delle economie di sharing. È vero però che troppo spesso i tempi di attesa burocratici sono eccessivi e questo comporta dei costi. Se un gruppo di giovani famiglie decide di investire in un cohousing (detto che la fase di costituzione del gruppo non è né semplice, né immediata), ma poi si trova costretta ad aspettare anni per avviare la costruzione, nel frattempo dovrà pagare un affitto che magari non aveva messo in programma.
Una volta messa in pista è una macchina che produce risparmi tipici delle economie di sharing. È vero però che troppo spesso i tempi di attesa burocratici sono eccessivi e questo comporta dei costi
Altre fragilità?
Il punto nodale è l’energia che una comunità riesce a dedicare alla strutturazione dei momenti condivisi. Spesso accade che nella fase iniziale ci sia un gruppo trainante che si occupa per esempio di ideare corsi o di organizzare le attività negli spazi comuni. Dopo un paio d’anni si assiste a una fase di stanca che se non viene affrontata rischia di depotenziare il sistema. Io penso che le chiavi di volta siano tre: la prima è aprir- si al quartiere con cui condividere spa- zi e servizi. Il secondo punto è accettare un turnover fra gli abitanti trainanti in modo da valorizzare energie nuove. Infine c’è la possibilità di appoggiarsi a figure professionali ad hoc come il gestore solidale o l’animatore sociale.
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