Sostenibilità

Turismo di massa: siamo tutti vittime e carnefici

Il sovraffollamento di visitatori colpisce molte città e località turistiche del mondo e in alcune di queste, come Barcellona e le isole Canarie, si stanno già alzando le voci dei residenti in protesta. Anche l'Italia subisce questo fenomeno, ma per affrontarlo c'è bisogno di una strategia che tenga conto della società nel suo complesso. E che sappia far fronte ai paradossi.

di Veronica Rossi

Una piazza di una città italiana al tramonto, ci sono molti turisti che camminano

Dalle Canarie a Barcellona, imperversano già dalla primavera le proteste contro il turismo di massa, che impoverisce e saccheggia città e mete di vacanze. Quello del sovraffollamento turistico è un problema importante anche per molte città italiane – pensiamo solo a Venezia e Roma – che depriva i centri urbani dei servizi per i residenti, a favore dei visitatori. Un’economia fragile, in cui pochi vincono e molti perdono. E che andrebbe rivista dalle fondamenta, secondo Elena Granata, docente di urbanistica e di analisi delle città e del territorio al Politecnico di Milano.

Professoressa, come spiega la situazione in cui si trova il settore turistico oggi?

Da una parte c’è un risveglio di proteste in contesti tradizionalmente turistici, come le Canarie – da un paio di mesi – o Barcellona, con questa protesta pacifica di persone che con pistole ad acqua spruzzano i turisti dando un segnale di disappunto. Ma pensiamo anche all’insofferenza dei veneziani, o dei fiorentini, o dei romani, rispetto al turismo di massa. C’è un fastidio crescente da parte di chi risiede in città rispetto all’usurpazione dello spazio urbano da parte dei visitatori; si entra in conflitto con gli abitanti temporanei. Un secondo punto da sottolineare è che il turismo non impatta più soltanto sulle grandi e tradizionali mete turistiche.

C’è un fastidio crescente da parte di chi risiede in città rispetto all’usurpazione dello spazio urbano da parte dei visitatori

In che senso?

Si diffonde anche in città di minor calibro e i suoi effetti negativi sono mal tollerati anche da chi abita queste zone. Non è più soltanto Firenze, ma tutta la Toscana, non solo Venezia, ma l’intero Veneto. Il modello di economia legato al turismo oggi riguarda contesti sempre più ampi di collettività in tutta Europa.

E parlando dell’Italia in particolare?

Da noi il turismo non è solo una parte dell’economia, che impatta sulle città durante il periodo estivo. Essendo quella turistica un’economia estrattiva – che tende, cioè, a consumare il più possibile i beni comuni e a massimizzare i profitti per alcuni, chi ha case di proprietà o gestisce esercizi commerciali, per esempio. In questo modo c’è un conflitto con i residenti, perché si compete attorno alle stesse risorse. Il turismo pian piano tende a impoverire i contesti. Prendiamo come esempio Venezia, meta ambita dai viaggiatori di tutto il mondo. I grandi flussi a lungo andare tolgono la padronanza sulle città ai cittadini, che devono lasciare le loro abitazioni a favore dell’affitto breve, quindi in particolare degli Airbnb.

E questo cosa comporta?

Che si cede il passo al turismo, quindi ad affitti brevi piuttosto che alla stanzialità; così vengono a mancare tutte quelle attività primarie che costituiscono al vita della città. Già da molto tempo si dice che a Venezia manca il panettiere, o le librerie su strada, perché tutta quella che è normale economia locale viene sacrificata sull’altare del turismo.

Abbiamo già superato la soglia di carico tollerabile: le città collassano perché non reggono gli effetti collaterali del turismo

Ed è una tendenza in peggioramento?

Sì. Dopo il Covid-19 si mettono in movimento masse di un ceto medio arricchito su scala planetaria, quindi oggi, per esempio, l’Italia è meta ambita di turisti americani, israeliani, asiatici, molti arabi, che sostanzialmente invadono un Paese molto piccolo ma molto “instaggrammato”, di cui si sa già prima che cosa si vuole andare a vedere, perché le immagini da cartolina si conoscono in tutto il mondo. Questo fa sì che abbiamo già superato la soglia di carico tollerabile: sotto un certo impatto le città collassano perché non reggono gli effetti collaterali del turismo, come la competizione sulle abitazioni e l’impoverimento dell’economia locale. E qui c’è un paradosso.

Cioè?

Le città turistiche non riescono a dar casa a tutto quel mercato fatto di camerieri, albergatori e personale delle pulizie che servono per il turismo. Quindi paradossalmente manca la manodopera che permette a questi luoghi di essere accoglienti. Assistiamo a infiniti cortocircuiti: si attirano turisti a scapito dei lavoratori, ma senza lavoratori non c’è chi possa gestire tutta la macchina. Oppure mancano infermieri, insegnanti e personale nei servizi. Questo sta già accadendo in tante città italiane. La domanda che ci poniamo è quindi: di chi sono questi luoghi, ospitali per i turisti e inospitali per i residenti? Ed è un fenomeno – è bene sottolinearlo di nuovo – che si sta diffondendo anche in città che prima non erano nel mirino del turismo. C’è però anche un secondi elemento di paradosso.

Quale?

Non è che i turisti sono “gli altri”: noi siamo dentro questa macchina infernale, potremmo dire, per cui siamo al contempo cittadini scontenti dei luoghi in cui abitiamo e turisti con un’ambizione di felicità nelle città degli altri. Noi stessi usufruiamo delle piattaforme come Airbnb o simili e quindi spodestiamo gli altri, che perdono il diritto di stare nelle loro case, nei loro quartieri, coi nostri comportamenti. Ecco perché quello sul turismo non può essere solo un ragionamento macro, sull’economia estrattiva che distrugge i beni comuni. Ci deve essere anche una lettura micro, che vede ciascuno di noi come funzionale a questo sistema, siamo tutti in qualche modo vittime e carnefici. Ci vuole anche un pensiero culturale.

Cosa si può fare quindi per rendere i flussi turistici verso le nostre città più sostenibili?

In questi giorni abbiamo letto del caso virtuoso di Copenaghen, uno dei contesti che più ha subito il fenomeno del turismo di massa negli ultimi anni. Per ovviare a questo abuso degli spazi, l’amministrazione ha messo in piedi un programma che premia il turista che adotta nel periodo in cui sta in città dei comportamenti consapevoli e sostenibili, da abitante – non prendere la macchina ma andare in bicicletta, per esempio, o prendersi carico della pulizia dei parchi pubblici – con l’accesso gratuito ad alcuni servizi urbani. In questo modo c’è una responsabilizzazione e un’educazione alla vita in comunità. Questa, però è una soluzione a valle. I veri problemi si risolvono a monte.

Dovremmo ragionare sulla salubrità e sulla qualità dei luoghi di partenza dei turisti

In che modo?

Le masse si muovono perché la città da cui si spostano è inospitale. Prendiamo per esempio Milano ad agosto: chiudono i negozi, chiudono i servizi e chiude quindi la città dell’abitare. È inevitabile, quindi, che i milanesi vadano via tutti in quel periodo. Se ci fossero piscine accessibili di qualità, parchi urbani, magari non tutti sarebbero in vacanza lo stesso mese. Dovremmo ragionare sulla salubrità e sulla qualità dei luoghi di partenza.

E bisognerebbe anche limitare le piattaforme come Airbnb?

La scelta di Barcellona di limitare di molto al 2027 il numero di alloggi che possono essere destinati all’ospitalità temporanea mi sembra fondamentale. C’è bisogno di regolamentazione a monte, di una politica urbana. Il mercato non si auto-regola, diventa insostenibile; ha bisogno di regole. Poi chi fa profitti, alla fine, sono gli stessi abitanti e qui c’è un altro cortocircuito. Airbnb non è solo un brand astratto, ma è fatto dagli infiniti comportamenti individuali e collettivi dei residenti, che preferiscono guadagnare sul turismo che restare ad abitare nelle città. Quando scegliamo di affittare la nostra casa a un visitatore di passaggio piuttosto che a uno studente o a un nucleo con bambini, esercitiamo la democrazia e diventiamo consumatori o cittadini responsabili.

Non si può nemmeno colpevolizzare le famiglie che cercano qualche entrata in più, in un’Italia sempre più povera…

Sono d’accordo. È molto difficile anche perché spesso non ci sono alternative alla rendita di una casa, che spesso sostituisce il lavoro, sempre più povero e precario, e che diventa l’entrata che tiene in piedi la famiglia. Riconoscere questa perversione però è fondamentale, perché un Paese dovrebbe vivere di lavoro e non di rendita. Pensiamo al Sud, dove a volte l’unico introito dipende davvero dagli affitti delle seconde case. Questa, però, è un’economia povera, di sussistenza, una “monocoltura”.

Spesso non ci sono alternative alla rendita turistica di una casa, che spesso sostituisce il lavoro, sempre più povero e precario

Mi par di capire, quindi, che il problema del turismo non riguardi un solo settore, ma tutta la società.

Esatto. Nei miei ragionamenti cerco sempre di far capire che le soluzioni per il turismo non si trovano occupandosi solo di turismo, ma capendo che sono legate alle politiche del lavoro, alla promozione della qualità urbana, alle regole che sovraintendono il mercato abitativo, a un’idea di sviluppo diversa da quella legata a un solo settore. O mettiamo mano alle relazioni tra tutti questi temi e quindi vediamo il problema in una logica sistemica, mettendo insieme economia, società e ambiente – le tre voci della sostenibilità – oppure continuiamo a mettere una pezza qua e una pezza là. In questo modo, però, il turismo genera sofferenza laddove dovrebbe invece promuovere serenità e piacere.

Foto in apertura da Unspalsh

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