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Tunisia, l’hub dei migranti che sembra la Libia

Dalla Tunisia quest'anno provengono il 7% dei nostri migranti, ma molti di più partono dalle coste del paese nordafricano, in fuga da altre nazioni subsahariane. La nostra guida per capire come mai è Lorenzo Figoni, policy advisor di ActionAid, nonché coautore dell'osservatorio «The Big Wall», il cui obiettivo è indagare impatti e modalità dei progetti finanziati nell’ambito delle politiche di esternalizzazione delle frontiere dell’Italia

di Paolo Manzo

Sui 45.380 migranti sbarcati sulle coste italiane da inizio 2023 sino al 12 maggio, il 7% sono tunisini, 3,266, ma la maggior parte di chi arriva da noi parte però da Sfax, la seconda città della Tunisia, diventata da qualche mese il principale hub migratorio verso l’Italia, da cui la separano appena 150 km.

Assieme alle coste di Mahdia un popolo di persone è pronto a mettersi in viaggio verso il nostro paese su barconi, carrette del mare sovente gestite da criminali della tratta. E mentre la Commissione europea dialoga col presidente Kaïs Saïed sull'ennesimo programma di «assistenza finanziaria», i tanti volti della crisi tunisina trasudano povertà, sovente figlia di interessi geopolitici internazionali.

La maggior parte dei migranti fugge infatti dall'Africa subsahariana e molti sono morti nel Mediterraneo perché, «quando la guardia costiera tunisina vede le barche a volte rimuove il motore e le lascia in mare, dove affondano. E i migranti muoiono», spiega un camerunese a The Guardian, mostrando la foto di un amico morto proprio in seguito a questo crimine di stato.

I tentativi di attraversare il mare dalla costa intorno a Sfax sono aumentati negli ultimi tre mesi, in mezzo a un'ondata di violenza razzista scatenata da un discorso incendiario di Saïed, secondo il quale «la migrazione clandestina dall'Africa subsahariana» sarebbe parte di una cospirazione internazionale per modificare il «carattere demografico della Tunisia». Non dissimile da

Per comprendere perché oggi si fugge dal paese nordafricano, VITA ha intervistato Lorenzo Figoni, policy advisor di ActionAid, nonché coautore dell'osservatorio «The Big Wall», il cui obiettivo è «raccogliere, organizzare, rendere accessibile e indagare impatti e modalità di implementazione dei progetti finanziati nell’ambito delle politiche di esternalizzazione delle frontiere dell’Italia».

Come spiega che la Tunisia sia diventata non solo un hub per i subsahariani ma anche un paese di partenza di migranti che oggi arrivano in Italia?

«Con il fatto che c'è povertà, è aumentata la disoccupazione e, negli ultimi tempi, c’è stato un attacco alle libertà individuali. Il problema è che dall'Italia la Tunisia è ancora percepita come un paese di origine sicuro».

Che vuol dire?

«Che per il riconoscimento della domanda di asilo ci sono tutta una serie di complicazioni ed è più facile che non gli venga concesso. La Tunisia in realtà oggi così sicura non è e da due anni il presidente Saïed ha intrapreso un percorso verso uno stato autoritario. Ha dissolto il Parlamento nel 2021 ed il Consiglio superiore della magistratura nel 2022. Tutte «riforme istituzionali» volte ad avere sempre più potere nelle sue mani ma, soprattutto, portate avanti con con toni sempre più repressivi. Basti pensare che nei mesi scorsi ha detto una cosa non dissimile dal ministro Francesco Lollobrigida, ovvero che esiste un piano criminale per cambiare la composizione demografica della Tunisia, per la presenza dei sub sahariani, fonte di violenza, crimini ed atti inaccettabili, aggiungendo che è il momento di mettere la parola fine a tutto questo».

Quali le conseguenze delle sue parole?

«Un'escalation di violenza nei confronti dei migranti subsahariani che si sono ritrovati ad essere attaccati per strada e a subire retate e violenze della polizia. C'è stato persino un presidio davanti alle sedi dell’OIM, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni e dell’UNHCR, l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, di diverse persone provenienti dall'Africa subsahariana che chiedevano di essere spostate da qualche altra parte, perché in Tunisia per loro non era più sicuro rimanere».

Che è successo alla fine?

«Che quel sit-in, dove c'erano centinaia di persone con bambini, è stato sgomberato dalla polizia in modo violento, richiamando in parte quanto già successo in Libia. A livello di contesto, dunque, c'è una deriva istituzionale fortissima con una repressione enorme non solo delle migrazioni ma anche nei confronti degli stessi cittadini tunisini. Ci sono prigionieri politici e, tra chi ha contestato l'operato del presidente ci sono la recentissima condanna del leader del partito Ennahda, Rached Ghannouchi, uno dei partiti più importanti in Tunisia. Insomma, c'è persecuzione degli oppositori».

Una volta i paesi che eliminavano la divisione dei poteri controllando la magistratura e sciogliendo il Parlamento si chiamavano dittature, ora regimi autoritari. Lei ha condotto una ricerca molto dettagliata per The Big Wall, di che si tratta e quali le conclusioni?

«ActionAid ha costituito questo osservatorio (Il Grande Muro in italiano, ndr) su tutti i progetti e i finanziamenti indirizzati all'esternalizzazione delle frontiere, ovvero a spostare sempre più in là i confini e a delegare a paesi terzi il controllo di queste frontiere. Ne abbiamo ricavato un database e con i documenti ottenuti offriamo una panoramica rispetto alle attività delle varie organizzazioni finanziate dagli Stati europei».

Nella prima fase vi siete concentrati principalmente su Libia e Tunisia. Cosa suggerite all’Unione europea e ai suoi stati membri?

«Il punto più importante è quello legato al «fondo di premialità per le politiche di rimpatrio». È nato nel 2019 (governo Conte I, ndr) ed è destinato a finanziare i paesi che collaborano di più in termini di rimpatri. Si tratta di soldi sotto forma di progetti e iniziative erogati attraverso le Nazioni Unite. La Tunisia è uno dei paesi che fa più rimpatri dall’Italia e, quindi, è uno degli stati che riceve più soldi».

Un po' la strada tentata in passato con Erdogan.

«Esatto ed è la logica del ricatto poi quella che ne consegue. La cosa interessante è che sono fondi che arrivano da stanziamenti in legge di bilancio a partire dal 2021 (governo Draghi, ndr) che si finanzia con i cosiddetti «risparmi in accoglienza». Ovvero delle richieste risparmiate per accogliere i migranti e che finiscono su questo fondo che finanzia i paesi che collaborano di più nei rimpatri».

Quale il suggerimento che si sente di dare al nostro governo?

«Che quei risparmi vengano reinvestiti in accoglienza, perché nel momento in cui noi diamo soldi a regimi autoritari che li gestiscono non con la massima trasparenza, in realtà consegnamo equipaggiamenti (pick-up, motovedette oltre a fornire addestramento ai militari) a un paese che poi non dà conto di quello che ci fa con quegli equipaggiamenti. La Tunisia chiede più soldi ma il risultato è che oggi ci sono centinaia di pick-up e veicoli nel paese nordafricano, all'interno di progetti gestiti dalle Nazioni Unite, il cui utilizzo finale è sconosciuto. C'è una mancanza di trasparenza enorme. Invece si continua ad investire su questo «fondo di premialità per il rimpatrio» al quale, dal 2021, sono stati aggiunti altri dieci milioni per ogni anno in legge di bilancio. Si pensa che possa funzionare ma, in realtà, continuiamo a dare soldi a un paese che non ti garantisce il rispetto dei diritti umani».

Crediti Foto: Michalis Famelis​

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