Stati Uniti

Trump, pugno duro contro i migranti: per deportarli usa una legge del Settecento

Il presidente ha scavalcato una doppia ordinanza di un giudice di Washington che impediva l’espulsione. Si tratta di 238 venezuelani accusati di essere membri del clan criminale Tren de Aragua e di 23 salvadoregni presunti affiliati della Mara Salavatrucha, un altro cartello internazionale

di Francesco Crippa

Il Governo degli Stati Uniti ha deportato verso El Salvador 261 immigrati accusati di essere criminali. Lo ha fatto scavalcando l’intervento di un giudice che per due volte ha provato a bloccare il decollo dei voli verso lo Stato centroamericano. E, soprattutto, lo ha fatto riesumando dagli archivi di Capitol Hill una legge del diciottesimo secolo che, fino a oggi, era stata usata in appena tre occasioni.

Non è la prima volta che l’amministrazione di Donald Trump si fa beffe (o prova a farsele) delle decisioni di un tribunale ed è scontato ritenere che non sarà l’ultima. Lo scontro, in questa vicenda, è iniziato venerdì 14 marzo, quando Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per espellere dal Paese centinaia di persone accusate di essere terroristi. 23 di loro sono salvadoregni e presunti affiliati della Mara Salvatrucha – MS-13, un cartello criminale internazionale. Come spiegato da un funzionario anonimo dello staff della Casa Bianca al Washington Post, costoro sono stati deportati in base ad alcune leggi federali. I restanti 238, accusati di essere membri del Tren de Aragua, un altro cartello criminale che ha base in Venezuela, sono stati rimossi appellandosi all’Alien enemis act. Promulgata nel 1798, la legge contro i nemici stranieri conferisce al presidente degli Usa il potere di espellere individui o comminare pene detentive in caso di guerra o invasione (minacciata o effettiva). 

Secondo la Casa Bianca, il Tren de Aragua è una «organizzazione terroristica che conduce una guerra irregolare» e per questo sarebbe giustificato l’uso della legge settecentesca. Un’equiparazione cui si è opposto James Boasberg, giudice del tribunale di Washington, che dunque ha emesso un’ordinanza per bloccare la deportazione. A questo punto, sabato 15 marzo l’amministrazione Usa ha fatto ricorso in appello, mossa cui il giudice ha risposto con una seconda ordinanza, più ampia della prima, in cui bloccava le deportazioni di tutte le persone in stato di arresto e ordinava il rientro di eventuali aerei già decollati.

In effetti, al momento della pubblicazione dell’atto di Boasberg (arrivata intorno alle 19.30) la Casa Bianca era già passata all’azione. Secondo i dati di Flightradar24, un sito che traccia i voli di tutto il mondo, alle 17.26 e 17.45 due aerei hanno sono partiti dal Texas direzione El Salvador, mentre un terzo è partito poco dopo l’ordinanza del giudice. Si tratta degli unici tre voli della compagnia GlobalX partiti dal Texas e atterrati nello Stato centroamericano tra il 15 e il 16 marzo, un dettaglio non irrilevante che permette di identificarli come quelli con a bordo gli immigrati deportati visibili in un video pubblicato sui social con cui il presidente salvadoregno Nayib Bukele dava orgogliosamente notizia dell’atterraggio dei voli.

L’amministrazione Trump, dunque, non ha tenuto conto in alcun modo degli atti giudiziari emessi da Boasberg. La posizione ufficiale del governo è che si tratti di atti privi di alcuna valenza giuridica. «Riteniamo che questa sia una sentenza legale infondata, indipendentemente da quando i voli siano decollati», ha detto il funzionario anonimo intervistato dal Washington Post, sottolineando che, in ogni caso, il fatto che due dei tre aerei fossero già decollati rinvigorerebbe la posizione di forza del governo. Parole analoghe a quelle usate da Karoline Leavitt, la portavoce della Casa Bianca, che ha sostenuto che le corti federali non abbiano alcuna giurisdizione su come il presidente gestisca gli affari esteri né sul suo potere di espellere i «nemici stranieri» cui fa riferimento l’Alien enemies act.

Gli immigrati deportati sono stati indirizzati al carcere di Tecoluca, il più grande delle Americhe, dove ci sono già circa 40mila detenuti e che secondo diverse organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani è una sorta di lager. Per Bukele, si tratta di un’opportunità per rafforzare la stabilità finanziaria del sistema penitenziario nazionale, che oggi costa 200 milioni di dollari l’anno. «Gli Usa pagheranno una tariffa che per loro è molto bassa ma che per noi è alta», ha scritto su X, e questi introiti andranno ad aggiungersi a quelli generati dalle attività dei detenuti così da rendere «il nostro sistema carcerario autosostenibile».

Bukele, che oltre che per la stretta autoritaria che ha dato al Paese e per la spericolata (e terminata) avventura di rendere il bitcoin moneta legale è noto proprio per la sua risposta col pugno duro alla criminalità, sui social ha scherzato sul fatto che il giudice Boasberg avesse provato a bloccare la deportazione. «Oops, troppo tardi», ha twittato divertito ricondividendo la notizia del tentativo. Il segretario di Stato americano Marco Rubio lo ha prontamente ringraziato: «Grazie per il tuo aiuto e la tua amicizia». 

Va osservato che la deportazione in sé non è un fatto nuovo e non solo perché lo stesso Trump ne ha già disposte altre. Rimpatriare immigrati o dirottarli verso altri Paesi è una pratica sempre più all’ordine del giorno per diversi Governi – basti vedere quello che fa l’Italia o la direzione che sta prendendo l’Unione europea – e adottata anche dagli Usa durante i Governi di Barack Obama e Joe Biden. Bypassando l’ordine giudiziario, però, Trump ha compiuto un preoccupante salto di qualità, dimostrando di essere pronto più o meno a tutto pur di far passare la propria linea.

Associated Press/LaPresse Only italy and Spain

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