Usa

Trump, cappio al collo della cooperazione internazionale

Per Kostas Moschochoritis, direttore generale e presidente ad interim dell’organizzazione umanitaria Intersos lo stop di 90 giorni ai finanziamenti per i fondi statunitensi destinati alla cooperazione e allo sviluppo ha creato una «enorme confusione». Washington vale da sola quasi la metà della spesa globale nel settore: senza le sue risorse si rischia «un effetto domino» dall’impatto «devastante»

di Francesco Crippa

Uno stop lungo 90 giorni e, chissà, forse di più. Il 20 gennaio, non appena insediatosi, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che sospende per tre mesi l’erogazione di quasi tutti i fondi destinati ai progetti di cooperazione umanitaria e sviluppo, esclusi quelli per gli aiuti alimentari d’emergenza e per i finanziamenti militari per Israele ed Egitto, come specificato in successive deroghe firmate dal segretario di Stato Marco Rubio.

Washington ha spiegato che si tratta di una misura necessaria per valutare l’efficienza dei programmi e la loro coerenza con la politica estera della Casa Bianca, ma per il mondo della cooperazione umanitaria è un colpo basso. Da soli, con 13,9 miliardi di dollari gli Stati Uniti hanno assorbito, nel 2024, il 42,2% della spesa globale in aiuti umanitari (dati Fts/Unocha). Considerando i fondi destinati ad altri settori, per esempio educazione o sviluppo economico, l’impegno americano aumenta esponenzialmente: i dati ufficiali del governo relativi al 2023 (quelli 2024 sono in elaborazione) parlano di 72 miliardi di dollari. Ora, per le circa 305 milioni di persone che si stima avranno bisogno di assistenza nel 2025. È difficile credere che al termine dei 90 giorni gli Usa riprendano la loro attività esattamente da come l’avevano lasciata. È lecito aspettarsi, dunque, una rimodulazione, magari al ribasso, dell’impegno umanitario di Washington.

A destabilizzare ong e attori del settore non è stata solo la notizia in sé, ma anche una certa confusione creata dal sovrapporsi di documenti e comunicazioni diffusi dal Governo americano. Il 20 gennaio, come detto, è stato firmato l’ordine esecutivo sugli aiuti umanitari, implementato da alcune deroghe il 24 e il 28 gennaio. Nel frattempo, però, il 27 gennaio l’Office of management and budget (Omb, in pratica la Ragioneria dello Stato) ha diffuso una nota con cui si congelavano i fondi e le sovvenzioni per tutte le agenzie federali. Questo ordine è stato interdetto da un giudice il giorno dopo, il 28, e quindi ritirato dall’Omb il 29 gennaio. Le varie organizzazioni e agenzie si sono quindi trovate in una sorta di limbo, ma a fare chiarezza ci ha pensato la portavoce di Trump, Karoline Leavitt, che su X ha sottolineato che il passo indietro riguarda solo la nota dell’Omb, mentre «gli ordini esecutivi del Presidente sui finanziamenti federali restano pienamente validi ed efficaci e saranno rigorosamente applicati». Dunque, in questo momento gli aiuti umanitari sono sospesi, salvo quelli che rientrano nella categoria di assistenza emergenziale.

In tutto ciò, va detto che già dal 2022 al 2023 la spesa americana si era ridotta, seppur di soli due miliardi. In generale, però, si sta assistendo a una parziale ritirata dall’impegno assistenziale da parte di diversi attori. In Europa, per esempio, Germania, Francia, Finlandia e Svizzera hanno effettuato tagli al budget previsto e pressioni in questo senso arrivano dai partiti di estrema destra anche in altri Stati, come Svezia e Paesi Bassi. Svolte che impongono un ripensamento dell’azione globale, cui l’incertezza causata da Trump non fa bene. Ne abbiamo parlato con Kostas Moschochoritis, direttore generale e presidente ad interim di Intersos, ong italiana nata nel 1992 e oggi attiva in 23 Paesi, dal Venezuela alla Moldavia, dall’Ucraina al Ciad fino all’Afghanistan e al Mali.

Kostas Moschochoritis

Che impatto avrà sull’aiuto allo sviluppo mondiale la decisione di Trump?

Il 42% del finanziamento totale per l’aiuto umanitario viene dagli Usa, quindi si capisce che parliamo di un impatto devastante. In secondo luogo, anche la modalità è preoccupante, perché non si è trattato di una scelta annunciata. A pagare, alla fine, sono sempre le popolazioni colpite dalle crisi.

Durante il 2025, 305 milioni di persone avranno bisogno di assistenza umanitaria. Quali saranno, a breve e lungo termine, le conseguenze sui progetti e sulle persone?

La mossa di Trump ha creato enorme confusione e caos. Le cose ora sono on the making, si stanno capendo strada facendo. Nella notte di martedì è arrivata la notizia che Marco Rubio [segretario di Stato Usa, ndr] ha decretato che gli aiuti salvavita sono esenti e questo per noi è positivo. Tutti gli altri settori però saranno colpiti. Intanto, noi facciamo la nostra parte, sono in corso attività di lobbying delle reti di ong per fare pressioni.

Quanto sarà compromessa la capacità di azione delle ong italiane?

Dipende dall’ong, ma in generale dobbiamo capire che la gestione di una missione umanitaria è un fenomeno complesso: non è che se taglio un tot dal budget allora l’impatto equivale al taglio. No, è molto di più, perché ci sono co-finanziamenti, progetti con più donatori che magari a questo punto non possono più partire, quindi si perdono altri fondi. Poi bisogna aggiungere che gli Usa sono back-donor importanti di molte agenzie dell’Onu, dunque ci saranno effetti anche su quello. Questa decisione causa un effetto domino.

Quanto della vostra capacità di azione dipende oggi dai fondi della cooperazione americana e come impatterà la decisione di Trump sulla vostra attività?

Gli Usa finanziano il 17% della nostra attività. Adesso dobbiamo pensare a un piano B: quantificare il problema, modificare alcuni progetti e deviare fondi da altri per colmare le lacune. Dobbiamo anche ridurre i costi, fare una sorta di spending review. Dobbiamo rivalutare il bilancio di previsione 2025 e potenziare le azioni di advocacy nei confronti di altri donatori. 

Avete un “piano di emergenza” per rimodulare i progetti?

Ci stiamo lavorando giorno e notte. Noi abbiamo fatto una programmazione basata su dei dati e ora questa programmazione deve cambiare e sappiamo che ciò avverrà in peggio. Il problema vero è che ci saranno costi che dovremo pagare di tasca nostra, alcuni dei quali inevitabili, perché anche se un progetto si blocca noi siamo comunque un datore di lavoro responsabile. Non è che possiamo lasciare a casa le persone senza un euro per tre mesi. Oppure, se devo disdire un ordine di medicinali, ci sono delle clausole penali da pagare. Ma vorrei sottolineare un punto. 

Prego.

I fondi sono solo uno strumento. Quando parliamo di fondi, parliamo di persone che ricevono o che non ricevono assistenza, un supporto.

Secondo lei, a questo punto cambierà il ruolo dell’Unione europea? È possibile aspettarsi un intervento compensativo, anche da parte dell’Italia? 

Lo speriamo e, come reti, lo stiamo chiedendo. In Italia ci sono molti modi per supportare le ong in questa fase. C’è Cassa depositi e prestiti che può dare un sostegno con prestiti agevolati. Aics e altri donatori possono coprire le lacune createsi. È importante trovare nuovi fondi, ma, come dicevo prima, dobbiamo avere nei nostri occhi sempre la persona vulnerabile nell’inverno afghano o nel caldo del Sudan.

Credit Hasib Hazinyar

Secondo l’European council on foreign relations, per essere più efficace nel sostegno umanitario l’Ue dovrebbe agire di più a livello comunitario e meno a livello di singoli Stati. È d’accordo?

Parzialmente, perché non esiste un unico approccio nell’aiuto umanitario. Avere centralità e coordinamento a livello europeo è importante, anche perché parliamo dell’unico donatore istituzionale che non taglia i fondi, almeno per ora [ride, ndr]. Tuttavia, ogni singolo Stato membro ha il suo ruolo. Ogni Paese ha le sue peculiarità, le ha cose che è più sensibile ad affrontare. Questo contribuisce alla ricchezza del sistema umanitario: i Paesi devono integrarsi con capacità e risorse individuali, in un senso di complementarietà.

Diversi Paesi europei, come Germania, Francia, Finlandia e Svizzera però, stanno tagliando i fondi. Come possiamo interpretare questo disimpegno?

Ci sono attori che stanno non tagliando, ma massacrando il sistema. È una deriva che va avanti da un po’ di tempo. Succede quando i Governi guardano dentro al proprio Paese e non fuori e, quindi, molti fondi rimangono all’interno per affrontare le emergenze locali. La considero una deriva miope, perché è estremamente miope pensare che ciò che accade in Sudan, per esempio, rimanga in Sudan.. 

L’aiuto umanitario viene troppo spesso strumentalizzato per fini politici. Come si può renderlo autonomo per rispettare i principi di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza?

Dobbiamo essere sinceri: ogni Paese ha la sua politica estera e quindi ha determinati interessi quando sceglie la sua politica di supporto umanitario. La nostra bussola rimane il bisogno, da valutare con imparzialità e indipendenza. Se si è legati a un solo donatore è più difficile, mentre con più fonti si garantiscono meglio questi principi. Comunque, la vera sfida non è solo esserlo, ma anche essere percepiti come tali.

Credit foto apertura AP Photo/Matt Rourke – Associated Press / LaPresse

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