Non profit
Troppi fucili in giro, ma questa gente mi ha davvero sorpreso
Il diario di viaggio di Marco Bertotto a poco più di un mese dal terremoto
di Redazione

La città è militarizzata. E invece servirebbero più pale che mitra. Ma la ricostruzione è possibile. A patto di partire dal basso
Port-au-Prince è oggi una città militarizzata, più di quanto dovrebbe. Troppi militari con il fucile e troppo pochi con la pala. Segnale di una eccessiva attenzione alla sicurezza che non tiene conto di un insegnamento: non c’è niente che crei più insicurezza nella gente dei soldati con i mitra spianati, tanto più che per strada non si registra un clima da guerriglia urbana. I militari canadesi stanno cominciando a lavorare per sgomberare detriti e macerie. Lo stesso si accingono a fare gli italiani. Per il resto in buona parte della capitale è come se il terremoto fosse avvenuto ieri, non fosse per le baracche che alcuni haitiani hanno costruito sopra la loro casa crollata.
Ad Haiti per una prima ispezione sulle attività condotte dalle ong di Agire, capisco meglio le numerose difficoltà dell’intervento umanitario. C’è un numero di sfollati altissimo in spazi davvero esigui: occorrerebbe mandare via le famiglie dai campi spontanei e poi costruirne di nuovi. Ma come si fa? E poi c’è il fattore tempo. Sta per arrivare la stagione delle piogge e qui quando piove tutto diventa fango. Il governo sta pensando di spingere le persone fuori dalla capitale, mandarle nelle zone rurali. Delocalizzare per togliere dal girone dantesco alcune centinaia di migliaia di persone potrebbe servire. Ma molti non hanno voglia di lasciare tutto.
È vero però che bisogna stare attenti a non prolungare l’emergenza all’infinito. Bisogna ricostruire, ma non tutto subito. Serve velocità, non fretta. E per capire come farlo, è necessario prestare ascolto alla popolazione. All’interno di ogni singolo campo sono nati comitati spontanei. Ne incontro due, formati da donne e giovani. Cercano di dare risposte concrete alle esigenze di base, si preoccupano delle persone più deboli – donne incinte, disabili, orfani – ma hanno una capacità propositiva di più ampio respiro. Hanno compilato le liste degli abitanti dei campi; si chiedono come organizzare una permanenza che sarà lunga. Una organizzazione dal basso che non mi aspettavo e che fa la differenza: come organizzazioni umanitarie noi possiamo fare molto, ma possiamo muoverci solo con il consenso e la collaborazione propositiva della popolazione colpita. Moltissimo, se non tutto, dipende dal suo contributo. Qui la situazione è straordinariamente complessa: Haiti era un Paese molto povero sul quale il terremoto ha infierito pesantemente. Non si può pensare di ripristinare la situazione precedente il sisma. Per questo è necessario ascoltare gli haitiani e accompagnare e sostenere quello che decideranno di fare. Sono loro i protagonisti. Nello stesso tempo non si deve prolungare l’emergenza e si deve cominciare quanto prima a ragionare sul medio e lungo periodo per una ricostruzione complessiva. Occorre mettere in gioco creatività e innovazione poiché i modelli tradizionali non sono sufficienti. Anche se il tempo non è molto, la fretta non sempre è buona consigliera. Occorre pensare a scavallare il tempo delle piogge ma anche guardare più in là.
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