Carceri in Sardegna
Troppi detenuti con problemi di dipendenza o disturbi psichiatrici: al flash mob anche il Garante
Quasi 100 casi di suicidio l'anno. Concordi i pareri di Irene Testa e dei responsabili di alcune delle principali realtà dell'Isola: occorrono nuove comunità per le misure alternative al carcere. Così le persone possono essere recuperate e lo Stato risparmia
Giovedì 18 aprile alle 11, di fronte al tribunale di Cagliari, si terrà un flash mob per richiamare l’attenzione dei cittadini e soprattutto della classe politica sul sistema carcerario sardo. Vi prenderanno parte la Garante regionale delle persone private della libertà della Sardegna, Irene Testa, i rappresentanti della Camera penale, dell’associazione “Socialismo diritti e riforme” e di altre realtà del Terzo settore che si occupano di questa tematica. «Nell’Isola non è tanto grave il problema della popolazione in stato di detenzione (parliamo di circa 2.100 detenuti, ndr), quanto la percentuale di malati psichiatrici e tossicodipendenti», spiega Testa. «Nel rapporto che presenterò a breve farò presente che è vero che siamo nel tetto massimo previsto dal ministero per la nostra regione, tuttavia siamo arrivati al limite e, in alcune strutture (per esempio le Case circondariali di Uta e Bancali), c’è sovraffollamento. Questo sta moltiplicando i casi di suicidi, a volte evitati d’un soffio, da parte di persone con gravi disagi. Sono necessarie misure straordinarie per fermare questo stillicidio di vite umane. Dobbiamo garantire a tutti la dignità e i diritti fondamentali».
«I malati psichiatrici e i tossicodipendenti sono troppi e non dovrebbero stare in carcere, bensì in strutture alternative che in Sardegna non ci sono», prosegue Testa. «Nella mia periodica visita nel carcere di Uta (Cagliari, ndr) nei giorni scorsi ho trovato l’inferno: un detenuto urinava in cella e beveva la sua stessa urina, riempiva le pareti di escrementi, si affettava le braccia. Un altro ancora viene tenuto in isolamento da mesi ma è stato sottoposto a Tso, vista la sua condizione di disagio psichiatrico. Addirittura, in alcune sezioni si fa fatica ad entrare per via dello stato di agitazione di alcuni detenuti. Persone malate che, come più volte ho denunciato, non dovrebbero stare lì. Ogni giorno assistiamo alle denunce della polizia penitenziaria, che si ritrova a spegnere incendi e salvare vite dai numerosissimi tentativi di suicidio. Lo scorso anno, solo a Uta, i casi sono stati 46, per un totale di 96 in tutta l’Isola. Ho parlato con tre ragazzi che sono stati salvati in extremis, tutti avevano un passato di tossicodipendenza alle spalle. Ragazzi fragili che non possono essere trattati all’interno di una cella chiusa. Ragazzi incompatibili col regime carcerario».
La garante Testa fa poi notare che «la metà circa dei 2.100 detenuti presenti in Sardegna proviene dalla penisola: molti di loro sono in regime di alta sicurezza. Sorvolo sul fatto che le leggi vigenti parlano di una distanza massima di 200 km dalla propria abitazione al luogo di detenzione, tuttavia ci sono carenze di personale che non sono state risolte. Faccio l’esempio del carcere di Uta, dove al momento c’è un solo psichiatra».
Una situazione esplosiva, denunciata da anni da chi si occupa di soluzioni alternative alla detenzione. È il caso di don Ettore Cannavera, fondatore della comunità “La Collina” di Serdiana che proprio questo pomeriggio riceve una visita informale della neo presidente della Regione, Alessandra Todde. «Il carcere risponde all’aspetto punitivo che c’è in ciascuno di noi», commenta Cannavera. «Quando discuto di questi argomenti, addirittura con persone di grande cultura ma di poca sensibilità umana, mi sento dire: “Hanno commesso un reato, vanno puniti”. Ma la nostra Costituzione non dice questo. Chi ha commesso un reato ha diritto di essere rieducato e aiutato a superare quell’aspetto negativo. Anche lui, come tutti noi, ha la tendenza umana e psicologica al rispetto dell’altro. Non possiamo tenere conto soltanto del reato che ha fatto, ma dobbiamo chiederci perché lo ha fatto. La carenza è istituzionale: l’aspetto pedagogico ed educativo nei confronti di queste persone, che secondo la legge sono finite giustamente in carcere, viene a mancare. In quel luogo rinforziamo la loro tendenza negativa: scontata la pena, 70 ex detenuti su 100 ricommettono il reato. Quindi la punizione in sé non è educativa, cioè non risponde alla nostra Costituzione ma solo al nostro istinto forcaiolo. Alcune persone che sono venute a visitare la nostra comunità e l’hanno trovata bella, accogliente, mi hanno detto: “Troppo comodo farci venire persone che hanno commesso un reato”. Invece è proprio la bellezza e la serenità di questi luoghi, oltre a un percorso di relazione umana, che ci permette di rieducarne la maggior parte. In trent’anni di esperienza posso dire che i risultati sono positivi: su 150 ospiti passati da noi, solo tre sono rientrati in carcere. Alcuni giovani che hanno commesso un omicidio sono diventati miei fidati collaboratori».
«La situazione dei tossicodipendenti in carcere è sempre molto problematica, sia per quanto riguarda la condizione degli stessi detenuti, sia per quanto concerne la situazione che il loro disagio crea nella complessiva convivenza in carcere con gli altri detenuti e con il personale penitenziario», commenta Padre Salvatore Morittu, fondatore dell’associazione “Mondo X-Sardegna”. «Oggettivamente, i bisogni che hanno i tossicodipendenti in carcere sono gli stessi che li spingono a venire in comunità, vale a dire una ristrutturazione della propria persona. La tossicodipendenza è un grave disagio esistenziale e il carcere non è un luogo adatto per dare risposte ai bisogni di queste persone che vogliono recuperarsi. Parliamo di persone che hanno una dipendenza dalle droghe e non una ludopatia, dunque hanno bisogno di fare percorsi alternativi in strutture adeguate. Occorre uno sforzo eccezionale da parte dei Serd e delle comunità: non solo gli operatori devono essere messi in grado di lavorare, ma si devono creare le condizioni affinché ci sia un numero adeguato di comunità in grado di accogliere le persone attualmente in carcere. Questa progettualità deve essere varata dalla Regione Sardegna, dunque guardo con fiducia all’impegno del nuovo assessore alla Sanità e politiche sociali con il coinvolgimento delle realtà del territorio».
C’è poi un problema decisamente più complesso, che riguarda i tossicodipendenti in doppia diagnosi. «È indispensabile creare comunità residenziali per la doppia diagnosi, che nell’Isola sono poche e non adeguatamente investite di attenzione dalla classe politica, anche per quanto riguarda il supporto finanziario. Non solo: ci sono diagnosi che richiedono un trattamento farmacologico molto forte e altre che vanno più sul versante della rieducazione. Ecco perché è essenziale avere comunità diversificate, in modo da dare risposte più adeguate ai bisogni reali. So che è difficile risolvere il problema nel suo complesso, ma di certo si può arrivare a migliorare la vita di tante persone».
«Un detenuto costa allo Stato 560 euro al giorno, mentre per una persona seguita in comunità è prevista una retta di 80-100 euro, ferma alle tariffe di 12 anni e che ovviamente va aggiornata. Basterebbero questi due dati per capire quale sarebbe il risparmio per lo Stato. Senza contare l’aspetto più importante: quello umano e sociale». La presidente del Coordinamento delle comunità terapeutiche sarde, Giovanna Grillo, è molto pragmatica ma conosce a fondo la materia e quindi aggiunge: «In Italia non c’è la cultura della giustizia riparativa, prevale l’aspetto punitivo. Si pensa che il tossicodipendente, in fondo, è uno che se le va a cercare ed è giusto punirlo. Sia chiaro: è evidente che niente e nessuno può esimerli dalla responsabilità di ciò che hanno fatto. Ma proprio per questo bisogna lavorare affinché capiscano il perché della pena inflitta e ciò che hanno combinato, oltre all’aspetto riparatorio verso la società e verso le vittime della loro condotta. Questa è la vera fatica del lavorare all’interno del sistema carcerario».
Giovanna Grillo ricorda poi che c’è una norma, «la legge n. 309/1990 sulle misure alternative alla detenzione per le persone che hanno problemi di dipendenza: è un provvedimento legislativo vecchio ma, per molti aspetti, ancora valido. La realtà dei fatti però si scontra con un budget superato, inadeguato e non in linea con i tempi. Così accade che magari il magistrato è favorevole alla pena alternativa ma non ci sono comunità in numero sufficiente per far fronte a questa esigenza, e quelle che ci sono tutte a pieno regime. Il privato accreditato, invece, ha occupato il 70 per cento dei posti letto. Qual è la differenza? Mentre una persona anziana che entra in una Rsa può contare sull’intervento del Comune di residenza o della propria famiglia, che vanno a colmare la differenza della retta sanitaria, per il tossicodipendente questa possibilità praticamente non esiste perché né lui, né la famiglia può permettersi una spesa del genere se non in casi rari. Vi è poi un altro aspetto per niente trascurabile: buona parte dei detenuti che stanno in carcere ha disturbi della personalità o comunque patologie psichiatriche gravi. In una comunità tradizionale non è possibile inserire troppi pazienti con disturbo antisociale di personalità, perché sarebbero ingestibili. Salterebbero gli equilibri necessari per lavorare serenamente con ciascun ospite. Se lo Stato e la Regione decideranno di cambiare rotta e investire su questo tipo di strutture, ne trarrà beneficio l’intera collettività».
Credit: la foto d’apertura è di Hasan Almasi su Unsplash
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