Politica
Trigilia: Non c’è nord senza sud
Ecco un brano dal libro di Carlo Trigilia “Non c’è Nord senza Sud” (il Mulino) pubblicato nell’ottobre 2012. Per conoscere il neo ministro alla Coesione territoriale
L’economia cresce poco e la società italiana appare sempre più bloccata, priva di quella spinta che nei passati decenni ha alimentato un rapido sviluppo. Lo si ripete ormai da tempo, e i dati che si accumulano negli anni lo confermano.
La perdita di dinamismo è stata aggravata dalla crisi economica internazionale degli ultimi anni, ma ha radici più profonde e origini più lontane.
La discussione sulle cause e sui possibili rimedi va avanti ormai da tempo. Su alcuni aspetti vi è un consenso piuttosto ampio. Colpisce però l’assenza – o il ritualismo – dei riferimenti al Mezzogiorno nell’analisi delle difficoltà dell’economia italiana e nella proposta degli strumenti per farvi fronte. Le ragioni sono molteplici. Pesano sicuramente i fallimenti del passato. Essi hanno rafforzato la convinzione, condivisa da un vasto arco di forze politiche e di opinione pubblica, che sia difficile, se non impossibile, affrontare con successo il problema del Mezzogiorno. D’altra parte, gli equilibri politici che si sono affermati nello scorso decennio, con l’alleanza tra Forza Italia Pdl e Lega, hanno spostato di fatto il baricentro dell’azione di governo verso il Nord, senza trovare una resistenza convinta nel campo dell’opposizione, anch’essa incapace di proporre un disegno di sviluppo nazionale credibile.
Insomma il sud è rimasto in un cono d’ombra, dal quale non è uscito neanche con le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità, nonostante l’impegno e i ripetuti richiami del Presidente Napolitano. Quest’assenza finisce per pregiudicare gravemente diagnosi e terapia dei problemi di sviluppo economico e civile di tutto il Paese. Non è infatti possibile immaginare una vera svolta in direzione di una crescita solida dell’Italia se non verrà sciolto il nodo del Mezzogiorno. Ma a questo scopo, le liberalizzazioni, la semplificazione amministrativa, il cambiamento della regolazione dei rapporti di lavoro e le infrastrutture, seppure molto importanti, non bastano.
Occorre ridisegnare una politica di sviluppo dei territori che sia insieme efficace e senza aggravi per la finanza pubblica. La tesi del legame tra sviluppo del Nord e del Sud non è certo nuova: in effetti, essa è stata da sempre al centro della riflessione migliore di quanti si sono cimentati con la “questione meridionale” sin dagli anni successivi all’Unità. Ed è stata ripetuta spesso nell’Italia repubblicana, ma ha finito per assumere – specie nella fase più recente – una connotazione sempre più retorica, resa evidente dal venir meno di ogni strategia credibile per affrontare seriamente il problema Paradossalmente, ciò si è verificato nel momento in cui i cambiamenti in corso nell’economia e nella società italiana rendono ancor più stretto il nesso tra Mezzogiorno e sviluppo di tutto il Paese.
I motivi di questo rapporto più stringente che lega oggi le sorti del Nord e del Sud non sono solo etico-politici, non si richiamano soltanto alla solidarietà nell’ambito della comunità nazionale, che pure non è da trascurare per un Paese che tiene alla sua identità e alla sua storia. I motivi riguardano sempre più le serie sfide che l’Italia deve affrontare per effetto dei processi di integrazione europea e di globalizzazione dell’economia. Mi propongo dunque di mostrare che non è possibile riprendere efficacemente la strada della crescita senza una svolta nello sviluppo del Sud, ma anche che la globalizzazione dell’economia apre oggi opportunità nuove nel Mezzogiorno che vanno sapute cogliere con strumenti diversi da quelli del passato. Si può promuovere lo sviluppo senza aggravio per le finanze pubbliche, anzi risparmiando, ma bisogna cambiare lenti con cui leggere la società meridionale e ci vuole una strategia che da tempo manca.
Vent’anni fa ho scritto per Il Mulino un volume (Sviluppo senza autonomia. Gli effetti perversi delle politiche nel Mezzogiorno) che tentava di mettere in discussione la lettura consolidata del problema meridionale. Le cause del ritardo erano allora attribuite principalmente a motivi economici: la carenza di capitale, di competenze, di infrastrutture. La soluzione era vista in un impegno dello stato che avrebbe dovuto investire risorse maggiori nelle regioni meridionali. In quel lavoro prendevo le distanze da questa prospettiva e attiravo invece l’attenzione sulle conseguenze negative (gli effetti perversi) delle politiche nel Mezzogiorno. Sempre di più le modalità di intervento della politica locale e nazionale contribuivano ad aggravare il problema piuttosto che a favorirne la soluzione.
Non si trattava di rinunciare al ruolo della politica per lo sviluppo, confermato da tutte le esperienze di successo, ma di mettere in discussione le particolari caratteristiche dell’intervento pubblico affermatesi nel nostro Paese. Il meridionalismo più consolidato non accettò allora questa lettura – e continua a non accettarla oggi – ma non riesce a fornire un’efficace spiegazione del fallimento dei tentativi di sciogliere il nodo del Mezzogiorno dopo decenni di redistribuzione di risorse pubbliche nelle regioni del Mezzogiorno da parte dello stato. Più di recente si è fatta strada una spiegazione alternativa a quella degli “aiuti insufficienti”.
In questo caso si chiama in causa la scarsa cultura civica e il basso capitale sociale. Sono dimensioni da prendere seriamente in considerazione – come vedremo-, ma anche in questa lettura ‘neo-culturalista’ c’è una forte sottovalutazione dei fattori politici. Rispetto al quadro tracciato vent’anni fa, le regioni meridionali sono certo cambiate, ma la politica locale e centrale ha ulteriormente accentuato il suo ruolo di freno a uno sviluppo autonomo capace di autosostenersi. Ciò che non ha trovato conferma, invece, è la fiducia nella responsabilizzazione delle classi dirigenti locali attraverso una maggiore autonomia politica (…).
L’integrazione europea, l’ingresso nell’euro, il dispiegarsi della globalizzazione, hanno messo a dura prova tutto il paese, ma hanno colpito particolarmente la realtà meridionale. Nelle aree del Mezzogiorno è cresciuta la dipendenza dell’economia, dell’occupazione e delle condizioni di vita dalla politica. Il processo di trasferimento di maggiori poteri ai governi regionali e locali degli ultimi decenni non si è accompagnato a una maggiore responsabilizzazione della classe politica, ma a un uso clientelare e assistenziale delle risorse che ha frenato ulteriormente lo sviluppo. I governi centrali hanno tollerato questa deriva perché il Mezzogiorno ha continuato a essere un bacino di consenso decisivo: un “esercito elettorale di riserva”. L’indebolimento dei partiti come strumento di promozione di interessi collettivi, la crescente autoreferenzialità della politica, la conflittualità interna alle coalizioni, la scarsa efficienza delle politiche che ne risulta, sono patologie che hanno afflitto tutto il paese nella Seconda Repubblica.
Ma nel Sud i danni sono stati ancora più forti, per la debolezza della società civile e dell’economia di mercato, e per le maggiori carenze di cultura civica. Contrariamente a quanto è stato sostenuto negli ultimi anni, il federalismo – inteso come mera attribuzione di maggiori poteri nelle spese e nelle entrate ai governi decentrati – non è dunque la ricetta per lo sviluppo del Sud. Esso può aiutare la responsabilizzazione delle classi dirigenti locali – che è il nodo cruciale – purché sia soddisfatta una condizione fondamentale. È necessario che ci sia uno stato centrale più forte e autorevole, capace di controllare che l’allocazione delle risorse pubbliche, determinata ormai largamente da regioni e governi locali, rispetti obiettivi di efficienza e di equità.
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