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Trieste, la storia di Umar: da profugo a volontario
Ha 25 anni, dal Pakistan è scappato 4 anni fa. Torturato dalla polizia croata, come molti migranti che provano a superare il confine tra la Bosnia e la Croazia e che poi vengono rispediti indietro, da quando è arrivato a Trieste lo scorso febbraio è diventato un volontario dell’associazione Linea d’Ombra odv: «voglio aiutare le persone e i ragazzi come me che sono stati torturati mentre provavano a passare il “game”»
di Anna Spena
Da quando alla fine dello scorso dicembre è bruciato il campo profughi di Lipa, nord della Bosnia (ne abbiamo parlato qui Bosnia e quei migranti che sta condannando a morte) si è accesa una luce su una delle rotte migratorie più lunghe e pericolose, quella balcanica. Per troppo tempo una rotta dimenticata. La prima è partita ufficialmente il 25 ottobre del 2015: Grecia, Macedonia, Serbia e Ungheria. Allora furono oltre 800mila i migranti, soprattutto siriani in fuga dalla guerra, che provarono a percorrerla. In molti arrivarono finalmente in Germania per chiedere l’asilo politico. Ma per l’Europa erano “troppi”. Pochi mesi dopo, nel marzo del 2016, Bruxelles sigla un accordo con Ankara per limitarne l’arrivo. Ma i confini sono come un colabrodo quando a far partire le persone è la disperazione.
E infatti i rifugiati in cerca di una nuova casa non smisero di provarci, solo cambiarono la strada. Così dal 2018 si sono venuti a creare altri due percorsi, il primo tra la Grecia, Macedonia, Serbia e Bosnia e l’altro tra Grecia, Albania, Montenegro e Bosnia. Ma una volta arrivati in Bosnia Erzegovina si rimane bloccati. I migranti tentano il “game”, l’espressione che utilizzano per indicare il passaggio tra il confine bosniaco e quello croato, ma vengono scoperti dalla polizia croata, picchiati, torturati, derubati e poi rispediti indietro.I profughi al confine tra la Bosnia e la Croazia non li vuole nessuno. Non li vuole la Bosnia, tantomeno la Croazia che li respinge con violenza mentre l’Europa se ne lava le mani ma rimane con la coscienza sporca. I respingimenti violenti della polizia croata sono una prassi da diversi anni. E la situazione ora è più che mai insostenibile. In pochi riescono a superare il confine.
Umar ce l’ha fatta ad arrivare a Trieste, non senza subire e portarsi addosso le conseguenze fisiche e psicologiche di una violenza inaudita e ingiustificata. «Ho 25 anni. Il Pakistan l’ho lasciato 4 anni fa. La mia famiglia è rimasta lì, ma nel Paese non si sta bene. I miei genitori sono entrambi malati, e ho lasciato anche due sorelle e un fratello. Qui non ho un lavoro, non posso sostenerli, ma la mia famiglia ha venduto l’ultima mucca per dare i soldi a me e provare il game».
Umar vorrebbe diventare un cuoco e «aiutare le persone come sono stato aiutato io». E lui è stato supportato a Trieste dall’associazione Linea d’Ombra odv fondata nell’autunno del 2019 dalla psicoterapeuta Lorena Fornasier e da suo marito Gian Andrea Franchi, professore di filosofia in pensione. Lorena e Gian Andrea, con altri volontari, offrono prima assistenza ai ragazzi che miracolosamente passano il confine con la Croazia ma che sul corpo portano i segni delle torture. «Abbiamo iniziato a medicargli i piedi. Sono tutti giovani e stanchi. Cerchiamo di supportarli un po’ prima che ricomincino il viaggio verso l’Europa del Nord», racconta Lorena.
Umar e Lorena si sono incontrati la prima volta lungo la strada che scende dal confine di Velika Kladusa in Bosnia Erzegovina, dopo che lui era stato catturato, seviziato e respinto dalla polizia croata. Gli avevano tolto le scarpe e lo avevano torturato con una sbarra incandescente scorticandogli la gamba, poi si sono ritrovati a Trieste quando è riuscito a passare il game. «La polizia croata è stata un problema ogni volta che ho provato il game», spiega Umar. «Mi hanno sempre picchiato, rubato il telefono, tolto le scarpe. L’ultima volta mi hanno torturato e minacciato di morte».
Umar dallo scorso febbraio si fermato a Trieste: «provo a fare il volontario come Lorena e gli altri, mi piace aiutare le persone». Ma la situazione non è semplice: «é abbandonato a se stesso come tutti gli altri profughi che arrivano», spiega Lorena. «Dopo le decurtazioni finanziare al sistema dell’accoglienza per questi ragazzi non sono più previsti corsi di lingua o qualcosa che li aiuti ad integrarsi. Umar è un richiedente asilo. La ferita alla gamba continua a dargli problemi e ad infettarsi, ormai è diventato antibiotico resistente. Adesso io ho preso l’iniziativa e l’ho portato dalla dottoressa Marina di Pordenone, che risolverà il suo problema, si è offerta di farlo pro bono». Nonostante tutto Umar ha deciso di diventare un volontario. «Non mi ha mai abbandonata», racconta Lorena. «Ha incominciato a venire con me in piazza della Libertà a Trieste per accogliere e curare i migranti che arrivavano. É sveglio, intelligente. Senza che io chieda niente mi passa i cerotti o le medicine che mi servono. Umar è un ragazzo pieno di resilienza».
Quella della Rotta Balcanica è una questione che ci riguarda da vicino. Dal primo gennaio 2020 a novembre dello stesso anno la polizia di frontiera di Trieste e Gorizia ha respinto 1.240 migranti e richiedenti asilo in Slovenia. E Dalla Slovenia sono stati riportati in Croazia, dalla Croazia alla Bosnia. Nei mesi di emergenza sanitaria i profughi hanno continuato, anche se in numeri ridotti, ad arrivare a Trieste, la città che fisicamente rappresenta il punto finale della Rotta Balcanica. Ma negli ultimi giorni la piazza si è svuotata, i ragazzi non arrivano. Perché?
«Nel silenzio della piazza vuota, sentiamo con forza e quindi comprendiamo meglio la ricchezza umana e politica dell’incontro fra i profughi e noi: del loro venire e andare e del nostro esser qui», scrive Gian Andrea Franchi sulla pagina dell’associazione. «Non riuscire a capire il perché ci dà un senso d’angoscia. Si potrebbe dire malignamente: abbiamo perso la ragione d’esistere. Ma l’impresa, poi nominata Linea d’Ombra, è cominciata in Bosnia e per più d’un anno si è retta sui viaggi in Bosnia, ora forzosamente interrotti, anche se l’aiuto finanziario per gli attivisti in loco non si è interrotto. Tutt’altro. E tuttavia se la piazza vuota dà tristezza non è solo perché abbiamo un sentimento d’inutilità: si è interrotto – momentaneamente, crediamo – un fiume vitale, perché questi ragazzi laceri e smunti, anche queste più rare famiglie smarrite, ci comunicavano voglia di vivere contro le barriere mortifere dei confini – fisiche e burocratiche. Ogni ragazzo che arrivava in questa piazza e riusciva a partire – quasi tutti – aveva vinto il suo game, o almeno la tappa più dolorosa dalla Turchia di Erdogan all’Europa. Di qui iniziava un nuovo viaggio, meno pericoloso, ma che poteva concludersi con un fallimento definitivo. Penso a quante emozioni racchiuse in questi corpi sofferenti, lette nei piedi e negli sguardi. Diceva Frantz Fanon, la grande voce intellettuale dei migranti: “Colui che cerca nei miei occhi qualcos’altro da un’interrogazione perpetua, dovrà perdere la vista”. Di questa interrogazione sentiamo la mancanza».
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