Welfare

Trento, quelle convivenze molto salutari

Dal 2012 a Trento alcuni richiedenti asilo convivono in case private con persone con problemi psichiatrici: danno un supporto relazionale, in cambio di un contributo che può arrivare a 723 euro al mese. Per le persone fragili è un guadagno enorme in qualità della vita, tanto che dall'area salute mentale il Comune ora ha esteso il progetto a anziani, minori e persone con disabilità.

di Sara De Carli

Matti e richiedenti asilo insieme: può sembrare un azzardo per l’ortodossia a compartimenti stagni dei servizi sociali, ma a Trento, con oltre settanta patti di convivenza realizzati dal 2012 al 2015 e una cinquantina in atto, queste “strane” convivenze non solo funzionano ma addirittura sono la nuova frontiera del welfare, su cui il Comune intende puntare nel 2017. Il progetto si chiama “Amici per Casa” ed è partito a Trento nell’autunno 2012, sulla scia della prima “emergenza Libia”. Profughi o richiedenti asilo segnalati dal circuito Sprar, dopo un corso di formazione e un tirocinio, vivono insieme a persone con problematiche psichiatriche o con lunghe storie di emarginazione, ricevendo dal Comune un contributo che può arrivare fino a 723 euro al mese. Un’esperienza che sfata la logica per cui gli immigrati siano un soggetto fragile da accudire o un problema da risolvere: gli immigrati qui sono diventati una risorsa preziosa per il welfare locale.

Gli accoglienti arrivano dalla Costa d’Avorio, dal Togo, dal Burkina… hanno un’età media di 37 anni e il problema di non avere un reddito né un tetto. Gli accolti invece – almeno quelli con cui il progetto è partito – sono persone con problemi psichiatrici, che nei servizi tradizionali non trovano risposte ai loro bisogni e che anzi – come dice Marina Cortivo, referente dell’area “abitare” del servizio Salute Mentale di Trento – quei servizi da anni li «mettevano in scacco». Le persone firmano un patto e vanno a vivere insieme, in case con i loro nomi scritti sui campanelli, di cui loro curano la gestione quotidiana: «Una persona che trascorreva più tempo in ospedale che fuori, ha ridotto i ricoveri a 5/6 all’anno. Un’altra è riuscita a costruire un vero e proprio progetto di vita indipendente e gli accoglienti sono diventati “badanti”, con contratti regolari. C’è chi ha riconquistato la cura di sé e con la propria persona, mentre una donna è stata affiancata da due ragazzi africani che avevano fatto come lei vita di dormitori: l’hanno “riaddomesticata” alla casa e sono riusciti addirittura poi a seguirne l’inserimento in una struttura per anziani dopo che le è stato diagnosticato un tumore. Certo bisogna lavorare molto sulla scelta, sia gli accoglienti sia gli accolti devono essere molto chiari nel dire cosa vorrebbero, è necessario che scatti una certa “alchimia” nella convivenza, se non c’è si prova con un’altra persona», racconta Cortivo. «Queste convivenze ormai sono diventate una tessera dell’offerta dei servizi, all’interno dei progetti individualizzati: ci consente di evitare istituzionalizzazioni precoci e di dare una qualità di vita migliore».

Il modello di Trento ha alle spalle la lunghissima tradizione del “fareassieme”, basata sul riconoscimento che esiste un “sapere esperienziale” degli utenti dei servizi di salute mentale e dei loro famigliari. A questo si aggiunge la convinzione che «chi ha vissuto tanti problemi, come i richiedenti asilo, è più capace di stare vicino a chi soffre» e sul fatto oggettivo che «le culture di provenienza di profughi e richiedenti asilo sono meno stigmatizzanti della nostra rispetto alla diversità e alla fragilità», afferma Renzo De Stefani, responsabile del servizio di salute mentale di Trento, il primo a scommettere sull’idea. Gli accolti ci guadagnano in qualità della vita, perché quella in cui vivono è una vera casa, con un clima famigliare, con relazioni affettive autentiche; i richiedenti asilo in dignità. Quello dell’accogliente non è un lavoro, ma solo un supporto relazionale: molti richiedenti asilo approfittano del patto di convivenza, che dà una casa e un reddito, per conseguire la licenza media in Italia o per il riconoscimento del loro titolo di studio, dopodiché trovano altri lavori. Alcuni invece qui hanno scoperto una vocazione per il lavoro di cura e sono stati assunti da cooperative come badanti. C’è anche chi è rimasto a vivere insieme agli accolti, tanto erano forti e positive le relazioni che si erano instaurate: l’utente – racconta Marina – era ormai diventato per loro «un fratello minore».

Per il Comune l’«“effetto collaterale”» è una rilevante riduzione dei costi. «Lo chiamo effetto collaterale perché la centratura è sulla qualità della vita», spiega Zaira Oro, assistente sociale, responsabile dell’Ufficio servizi sociali non decentrati del Comune di Trento, «tuttavia la riduzione di costi è talmente evidente che è impossibile tornare indietro: con il contributo massimo si arriva a 23 euro al giorno, contro gli almeno cento di qualsiasi struttura». Il Comune di Trento su questo progetto ha deciso così di andare avanti: dalle prime convivenze sperimentali fatte tra richiedenti asilo e persone dell’area salute mentale, con il 2015/16 è stata introdotta anche la convivenza diurna, per persone che hanno bisogno di un sostegno solo in alcune ore della giornata, con l’accogliente che va al domicilio della persona accolta, ed è stato allargato il target dell’utenza, coinvolgendo anche anziani, minori e persone con disabilità, anche in vista del “dopo di noi”. Anche alcuni italiani hanno fatto il corso e sono diventati accoglienti. «Certamente è una frontiera su cui investiremo molto, ad esempio stiamo lavorando con due giovani trentenni con disabilità che vivono in un appartamento con accoglienti: è una soluzione che ci consente di intercettare in maniera più precisa i bisogni delle persone, diversificando l’offerta», spiega Oro.

Ma quali sono le condizioni per realizzare tutto ciò? E perché in tanti sono andati a Trento per vedere da vicino il modello (l’ultima Milano, che a novembre ha mandato i suoi osservatori) ma fin’ora nessuno l’ha replicato? «Come cornice basta poco, la normativa sull’affidamento famigliare e una legge quadro sui servizi sociali che preveda un’accoglienza degli adulti: certo ci vuole un po’ di fantasia, bisogna cambiare la logica per cui della fragilità si può far carico solo un soggetto “normale”, per solidarietà, non un soggetto che sia a sua volta fragile. Qui invece serve vedere le persone non solo per il problema che hanno ma per le loro riosrse e capacità», spiega Oro. «La differenza la fa avere qualcuno che ci metta la faccia, a livello politico e amministrativo», sintetizza De Stefani: «oggi il progetto Amici per casa è un valore riconosciuto, ma all’inizio io e Nicola Pedergnana ci abbiamo messo la nostra credibilità. L’altra cosa è mettere a disposizione personale per seguire queste convivenze: se tu amministrazione pensi che queste persone siano solo “stravaganze” da lasciare i margini non ti metti ad inventare un servizio del genere. Il futuro però sarà sempre meno appannaggio delle comunità ad alta protezione, costosissime e di scarsa utilità, e sempre più di queste forme che fanno premio sull’accoglienza e la convivenza tra pari».

A Trento infatti ci sono quattro persone part time che vanno nelle case più o meno una volta alla settimana, per verificare il buon andamento della convivenza. La struttura organizzativa del servizio prevede inoltre una cabina di regia mista, composta dai responsabili dell’Asl, del Comune e del Centro Salute Mentale e un “gruppo accoglienze” analogo, che propone gli abbinamenti, l’ammontare delle rette, il team che monitora le accoglienze, più un gruppo di automutuoaiuto per gli accoglienti. «In questa proposta c’è un elemento di incertezza e flessibilità molto più elevato che nei percorsi tradizionali, lineari e prevedibili, in struttura e l’operatore si assume oggettivamente una responsabilità maggiore: l’elemento che fa la differenza è avere alle spalle dei vertici che ti supportano e non ti fanno sentire solo», conclude Oro. Il valore aggiunto è che questa è «un’integrazione reale e sul campo, non scontata, fra sociale e sanitario, una cosa preziosa». Forse è per questo che il progetto piace a tutti ma non è stato replicato da nessuno.

Foto courtesy Edizioni Erickson/ ©Alessio Coser

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.