Volontariato

Trento caput mundi. Storia e vita di una diocesi senza frontiere. Intervista al vescovo Luigi Bressan

di Giuseppe Frangi

Si definisce scherzosamente uno del sud, nel senso che è nato a Sarche, quasi ai confini con il Veneto, 71 anni fa. Luigi Bressan dal 1999 è vescovo di Trento, dopo avere passato la sua vita di sacerdote ai quattro angoli del mondo: 13 anni in Asia tra Pakistan, Corea e Thailandia; poi Costa d’Avorio, Brasile, Ginevra e Strasburgo come rappresentante vaticano. Grazie a questa sua biografia, è davvero simbolo di una terra che per tradizione e vocazione è aperta al mondo. Terra con un numero record di missionari, presenti in tutti i continenti. Ma anche terra di dialogo ecumenico, in particolare per aver dato i natali a Chiara Lubich che qui, nel 1943 fondò il movimento dei Focolari, oggi presente con decine di migliaia di figli spirituali in ogni angolo del pianeta. Si sono trovati qui a due anni dalla morte della fondatrice a metà marzo, e la nuova presidente Maria Voce si è augurata che «Trento venga percepita da tutti, turisti e non, come la città di Chiara Lubich e Chiara Lubich come colei che ha portato nel mondo i valori di Trento».
Dove nasce questa vocazione mondiale della sua diocesi? In fondo siete una diocesi di montagna…
Nasce da quel grande fatto che fu il Concilio di Trento. Quando la cristianità europea si stava per dividere, l’estremo tentativo di ricucitura venne fatto qui. Perché Trento era parte dell’impero e quindi andava bene ai tedeschi. Ma era al sud delle Alpi e parlava italiano. Ricordo che allora la città aveva 8mila abitanti e ospitò 2mila persone. Fu questa un’esperienza che segnò la nostra città. Tant’è che nel 1964 Paolo VI ci incoraggiò a riscoprire questo nostro ruolo e a diventare apripista nel dialogo ecumenico.
Profilo che avete mantenuto?
Penso di sì. Abbiamo un dialogo aperto con il patriarcato di Mosca e abbiamo un centro di islamistica. Ma è soprattutto la presenza capillare dei missionari che ci fa essere una diocesi aperta al mondo. Sono oltre 300. Ogni missionario è come una finestra aperta che stimola interesse, attenzione e impegno anche da parte della comunità locale.
Impegno per sostenerli…
Pensi che in Trentino abbiamo ben 260 associazioni nate per sostenere ciascuna una missione. A volte dico che sono quasi troppe. Comunque sono ingranaggi di un sistema che dimostra di funzionare, anche grazie alla scelta dell’amministrazione provinciale di destinare ogni anno l’0,25% del budget al sostegno di progetti internazionali. Si tratta di 12/13 milioni di euro che in gran parte vengono mandati a destinazione per il lavoro svolto dalla rete di quelle associazioni.
Qual è la zona del mondo in cui siete più presenti?
Il Sudamerica. Lì abbiamo anche cinque vescovi. Ma il caso più emblematico è quello di don Lino Zuccol, che ha appena compiuto 95 anni e che nello stato del Kerala, nel sud dell’India viene guardato quasi come un santo. È lì dal 1948 e ha fondato una congregazione, quella delle Serve dei poveri, che oggi conta 1.200 suore. In questi 60 anni ha fatto costruire oltre 10mila case al posto delle capanne che venivano distrutte ogni volte dai monsoni.
Anche qui in Trentino avete a che fare con problemi di povertà e marginalità.
Cerchiamo di rispondere con iniziative anche innovative. Abbiamo lanciato un prestito solidale. Il modello è interessante e ha funzionato: si concedevano prestiti solo a chi accettava di farsi seguire da un esperto per imparare a gestire il bilancio famigliare. Solo uno su 60 non è stato in grado di restituire il prestito.
State anche riorganizzando il sistema delle parrocchie. Come?
Il Trentino ha poco più di mezzo milione di abitanti. Le parrocchie sono 452: ce ne sono di piccolissime come quella in Valassa che ha 38 fedeli. In un momento in cui i preti sono pochi, reggere un sistema così era impossibile. Si è avviato un processo dal basso per costituire delle unità pastorali. Significa che più parrocchie si uniscono costituendo un solo consiglio pastorale, pur senza eliminare le singole identità. Ma tante attività vengono unificate. Nella parrocchia restano dei comitati che sono un po’ le nuove comunità di base. È un processo spontaneo, dettatato dalla necessità, ma che aiuta a rafforzare una coscienza di chiesa diocesana. Attualmente ne sono state riconosciute sette, ma c’è un’altra ventina di unità pastorali ormai mature. È un buon modello perché salvaguarda le identità, che in una terra come questa sono un fattore di ricchezza.
Intanto lei trova il tempo di scrivere libri…
Ne ho appena pubblicato uno su Maria nella devozione e cultura islamica. Anche questo è un contributo al dialogo e alla conoscenza reciproca.

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