Tra le varie certezze che si stanno sgretolando (nel paese e fuori), oltre al binomio stato / mercato c’è anche quello tra for e non profit (posto sia mai stato una certezza). E il fatto che norme recenti come quella sull’impresa sociale riaffermino la centralità del fare o non fare (o meglio del distribuire o non distribuire) profitto contribuisce a rafforzare l’immagine di un paravento sempre più opaco. Insomma clima da fin de siècle, come la riproposizione di concettualità e, ancora una volta, di norme sul terzo settore. E’ proprio i
l caso di dire che da noi tutto finisce in legge, da buon paese latino. E non consola molto osservare che la norma interviene a cose fatte, mettendoci il cappello giuridico. Se mai ciò è avvenuto in passato, perché oggi i fenomeni vanno da tutt’altra parte rispetto a un legislatore in tutt’altre faccende affacendato. Una sana dissoluzione quindi. Con quel misto di attrazione e orrore tipico del sublime. E dell’aspettativa delle cose nuove che emergeranno da questo passaggio d’epoca. A proposito che cosa si intravede nel polverone del crollo? Tre polarità. 1) Imprese sociali di capitali di tipo “low profit” (partecipate da shareholder istituzionali, anche pubblici) che gestiranno asset rilevantissimi come welfare hard, servizi pubblici locali, ecc. 2) Network cooperativi multistakeholder impegnati nell’infrastrutturazione di tutto ciò che è “locale” (e che in Italia conta molto: dall’agroalimentare alla manutenzione delle comunità naturali fino ai distretti, ecc.). 3) Fondazioni per la produzione di conoscenza e per il confezionamento di issues dell’agenda politica, veri e propri policy maker “extraparlamentari”. Fantascienza? Forse, ma si vede poco…
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