Da qualche mese cerco di annodare i fili tra impresa sociale e web 2.0. All’inizio, e questo è il primo passsaggio, sembrava relativamente semplice. Sono entrambe tecnologie collaborative, poco gerarchiche e facilmente accessibili. E per di più fanno la stessa cosa: costruiscono legami sociali artificiali. Prevaleva quindi l’effetto sorpresa: “perché quelli del web, così curiosi, non c’hanno ancora pensato?”. O lo scetticismo: “queste imprese sociali arrivano sempre ultime!”. Poi, e questo è il secondo passaggio, sono emersi i primi dubbi guardando meglio i frameworks che organizzano la collaborazione sul web (i social network soprattutto). Sono strumenti che forniscono protesi sociali, limando però l’individualità fino a farla scomparire in profili standard. L’esatto opposto rispetto alle imprese sociali che invece costruiscono piani e progetti di servizio facendo leva proprio sul riconoscimento e sulla valorizzazione della persona (per quanto “svantaggiata”). Il terzo passaggio riguarda la gestione dei processi collaborativi. E in questo caso l’intervista alla responsabile di Wikipedia Italia apparsa su Vita è stata molto istruttiva, perché ha messo in luce un ulteriore elemento di problematicità. I network sociali, virtuali e non, si reggono su due importanti attributi dei nodi: autonomia e responsabilità. Per quanto si tratti di reti piatte e aperte, anzi proprio per questa ragione, è necessario che gli apporti siano ben identificabili, attribuendo (e retribuendo) i relativi diritti e doveri d’autore. Solo così si può evitare di sprofondare nella fanghiglia di conoscenze spezzettate e, appunto, irresponsabili perché manca un riferimento chiaro a chi le ha generate in modo (relativamente) autonomo e responsabile. Questioni complicate e forse espresse malamente. Però cruciali per evitare di farsi trascinare dall’onda “positivista” che vede addirittura nell’utilizzo esteso di queste tecnologie l’avvento di un modello di impresa, guarda caso, più “sociale“.
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