Cultura
Traversetolo, l’eterno ritorno di Medea
Margaux Bricler da vent'anni lavora su Medea. Nel 2023 l'ha riletta mettendosi in gioco con una sua foto al settimo mese di gravidanza. Riflessioni sulla maternità a margine della vicenda di Traversetolo, dove una ragazza di 21 anni è accusata di aver ucciso e seppellito in giardino i suoi due figli neonati. Senza psicologia, senza sociologia, senza moralismi: a tu per tu con la forza eterna del mito e dell’arte, che continuano a parlare di noi
Medea: dinanzi a un infanticidio l’immaginario corre subito a lei, icona, εἶδος e monstrum. Un buio che l’arte può illuminare. Margaux Bricler – artista francese, classe 1985, un figlio – non ha solo lavorato “su” Medea. Nel 2023, per la mostra Medea, curata da Demetrio Paparoni e ospitata negli spazi dell’Antico Mercato di Siracusa, Bricler ha realizzato l’opera Medea, o come diavolo si chiamava (una foto la ritrae nuda al settimo mese di gravidanza) e l’ha affiancata a un’istallazione che mette in primo piano un telo insanguinato retto da un coltello, intitolando il tutto L’omelette tragique (Sêma, Sôma). Si è messa in scena, col suo corpo, in gravidanza, in un’opera di grandissimo impatto. Sgomenti e afasici davanti alle cronache che arrivano da Traversetolo, dove Chiara – una ragazza “perfetta” di 21 anni, studentessa universitaria di famiglia benestante, babysitter e animatrice ai centri estivi – ha portato a termine due gravidanze e poi, questa è l’accusa, ucciso i neonati e seppellito i loro corpi nel giardino di casa, con Bricler ci mettiamo a tu per tu con la forza eterna del mito, del tragico e dell’arte, che continuano a parlare di noi.
Qual è la sua prima reazione, davanti a queste cronache?
La prima riflessione è una domanda. Perché una ragazza nel 2024 rimane incita e non pensa di abortire. Porta a termine non una ma due gravidanze, per arrivare all’assassinio di entrambi i bambini, che probabilmente è anche un assassinio di se stessa. Io non credo che l’aborto sia qualcosa che non segni una donna, ma allo stesso tempo in queste ore penso anche a coloro che lo criminalizzano: un fatto di cronaca come questo dovrebbe ricordarci che cos’è un omicidio. Come questo climax di orrore e di terrore può essere stato intenzionalmente scelto rispetto a un’altra soluzione? È una domanda senza risposta. In questa ragazza è stato quasi un fatum, un destino. Ha ucciso i figli perché non ha potuto abortire? Non ha cercato di abortire per una ragione psicopatologica oppure perché un’intera società – la famiglia perfetta, la ragazza che ama i bambini, i vincoli della religione e del patriarcato – ha creato un involucro di estrema rigidità che le ha impedito di scegliersi il suo destino e l’ha portata all’atto irrimediabile? Questo è il primo filone su cui mi viene da riflettere. Il tema della scelta del proprio destino. Medea uccide i suoi figli perché torna ad essere la figlia del Sole e abbandona come una contingenza della sua vita il fatto di essere stata la moglie di Giasone e avere avuto da lui due figli. Faccio fatica a credere che Chiara possa tornare a tessere un destino che non sia segnato dal “mostro”, lei sarà sempre il mostro… come Medea. Un mostro che tutti cercheranno di riempire di un significato, che però sfugge e sfuggirà.
L’eroe tragico ha sempre questa forza di abbracciare la responsabilità di un destino paradossalmente tessuto per lui dagli dei.
Il contesto sociale di un territorio come quello di Traversetolo forse però non è tale da pensare che ci fosse il rischio di ostracismo per il fatto di aver abortito. Davanti all’enormità di una madre che uccide un figlio, Medea è un riferimento per il nostro immaginario. Ma è giusto o sbagliato tirarla in causa? Chi è Medea, cosa rappresenta, dove la semplifichiamo o in cosa la appiattiamo? Che cosa non vediamo di Medea nel ridurla al mostro che ha ucciso i propri figli?
Medea rappresenta il nome della madre in opposizione assoluta al nome del padre, al nomen. Qualche secolo dopo la prima comparsa del mito, il diritto romano dovette stabilire che fosse obbligatorio per un padre adottare il proprio figlio: esattamente come faceva per i figli che sceglieva di adottare. Una cosa che Lacan semplifica (o, al contrario, rende estremamente complessa) affermando che il padre è colui che dice la madre. Una pura pratica del credere, direbbe Michel de Certeau. Nel caso di Medea, va per forza ricordata la cultura greca, la cui misoginia viene spesso e volentieri dimenticata nel nome della democrazia e della filosofia. Ma la donna in Grecia, a maggior ragione la donna straniera, la barbara, come lo era Medea, non era pressoché niente: una fattrice senza diritti, nemmeno sui propri figli. Quello che ci sfugge di Medea è il fatto che ella, ripudiata da Giasone che si sposa con Glauce, sta per perdere anche i suoi figli, che in forza del diritto tebano sarebbero andati all’autorità del padre. Così sceglie di mettere un punto finale a tutto. L’eroe tragico ha sempre questa forza di abbracciare la responsabilità di un destino paradossalmente tessuto per lui dagli dei.
Rimane l’assoluta solitudine dei personaggi tragici, specialmente i più mostruosi, quello che i greci chiamavano l’idiozia (ἴδιος): la semplicità, il carattere singolare, ciò che non viene ripetuto. Personaggi il cui gesto non sarà mai abolito dalla proliferazione dei significati.
Lei ha scritto: «Medea mi si è attaccata alle calcagna, prima di una serie di criminali mitiche presenti nel mio lavoro». Scrive anche che Medea vent’anni dopo il primo incontro ha perso la patina femminista, rivoluzionaria e psicoanalitica sotto la quale mi si era presentata… Come la vede ora?
Forse l’ho persa di vista. Ovvero, la tragedia — greca, shakespeariana o raciniana che sia — implica una relazione verticale, oscura e muta con il destino, una dimensione che non può esaurire le considerazioni di una che, come me, vive a distanza di qualsiasi trascendenza. Quello che per un’artista invece rimane è l’assoluta solitudine dei personaggi tragici, specialmente i più mostruosi, quello che i greci chiamavano l’idiozia (ἴδιος): la semplicità, il carattere di ciò che è singolare, ciò che è nel suo “proprio” o nella sua particolarità. Diventa quasi un manifesto d’avanguardia: questi personaggi il cui gesto non sarà mai abolito dalla proliferazione dei significati, il cui segreto rimarrà cinto e chiuso di fronte alle epoche fluttuanti che sprecheranno molta saliva in speculazioni.
«Nec pueros coram populo Medea trucidet», a teatro non si mostri Medea mentre massacra i suoi figli: è l’ammonimento di Orazio nella sua Ars Poetica. Medea «è l’oscenità pura», scrive Tiziano Scarpa, «l’ob-scena, cioè che si mette di traverso sulla scena, l’ob-staculum che impedisce la scena e la cancella». Il fatto che questo indicibile/inimmaginabile/irrappresentabile ricorra nella storia seppur in modi diversi significa che dovremmo smetterla anche con la retorica del considerarlo tale, retorica che di fatto è un chiaro contraltare della maternità come sacrum? Liberarci di Medea è impossibile?
No, non ce ne possiamo liberare. Intanto perché rimane il ricordo di un ricordo di un ricordo e così via… il mito. Secondo, perché dovremo affrontare altre “Medee”, se così le vogliamo chiamarle, perché altre donne uccideranno i loro figli: perché malate, perché folli (il che per me è diverso), perché viviamo una società in cui il diritto all’aborto non è abbastanza difeso. Ma viviamo ormai in un mondo in cui il destino della donna non è più né tecnologicamente, né ideologicamente, né culturalmente, né naturalmente, né ambientalmente quello di fare dei figli.
Nell’assenza della trascendenza e nelle vicinanze di Artaud, uno ha il dovere di scegliere il proprio destino, anche se rischia di fallire. Anzi, nella consapevolezza che fallirà.
Essere libera di scegliersi il proprio destino, diceva prima: ma non è una contraddizione?
Beh, in parte lo è, ma di nuovo, dipende della posizione che una o uno ha eletto per cercare di vivere. Nell’assenza della trascendenza e nelle vicinanze di Artaud, uno ha il dovere di scegliere il proprio destino, anche se rischia di fallire. Anzi, nella consapevolezza che fallirà.
Il mito di Medea è proprio questo: un mondo di uomini in cui le donne, prive di parenti (di genealogia) e di figli (di discendenza) non sono assolutamente niente
Lei non ha solo lavorato “su” Medea. In un’opera si è messa in scena, col suo corpo, in gravidanza. C’è – dicevamo – una sua foto al settimo mese, c’è un telo insanguinato, c’è un coltello. È di grande impatto. Il suo corpo diventa il corpo di Medea? Come è nata questa opera, perché questa scelta, che messaggio ha voluto dare?
No, no, il mio corpo non diventa quello di Medea, per fortuna. Ho colto l’occasione che si è presentata sotto i tratti del destino beffardo, semplicemente. Mi si è chiesto di produrre un lavoro inedito su Medea ed ero incintissima, lo iato mi ha fatto sorridere. Per vent’anni sono stata perseguitata dalla sua figura, tra i testi antichi, i dipinti, le riscritture contemporanee e poi, ovviamente, il film-monumento di Pasolini che ha contribuito molto alla mia formazione etica ed estetica e di cui invece oggi penso che, a prescindere della sua bellezza, non dica assolutamente niente. Pasolini è stato crudelmente filologico (volontariamente o alla sua insaputa, ciascuno è libero di scegliere) perché il mito di Medea è proprio questo: un mondo di uomini in cui le donne, prive di parenti (di genealogia) e di figli (di discendenza) non sono assolutamente niente. Quanto al messaggio della mia opera, non saprei, non faccio agitprop e ho semplicemente cercato di guardare in modo sincero e affilato ciò che la mia gravidanza stava per produrre — in termini di frastornamenti e di “esilio” — nel mio lavoro artistico, inteso come pratica nello studio e come facente parte di una piccola società in cui il fatto di avere dei figli, specialmente per la madre, non è del tutto accolto.
La maternità è oggettivamente una palla al piede. In un video che feci nel 2018, il piede di una donna pestava un uovo per strada, esattamente come fosse una merda. L’uovo, per un soggetto politico e aggiungerei per una donna, è un destino di merda
Nell’opera ha un uovo di struzzo che le incatena il piede. La maternità è una palla al piede, una limitazione, un destino che la donna deve essere libera di rifiutare?
Comincerei da una tautologia. La palla al piede è una palla al piede. Per chi, come me, aveva trovato nell’arte la modalità di essere puer aeternus, gesto puro e refrattario, la maternità è oggettivamente una palla al piede e ciò non esaurisce l’immenso desiderio che avevo di avere un bambino. Articolando in modo più analitico e storico, la palla al piede è un capovolgimento dall’uovo cosmico che penzola dalla volta del soffitto nella Pala Montefeltro di Piero della Francesca, una pittura che ho guardato tanto (come molti) e che assieme a Georges Bataille è responsabile della quantità di uova che si ritrova nel mio lavoro. In quanto sono idiota, non posso fare l’esegesi delle mie opere ma penso che l’uovo faccia segno a due significati. Il primo è evidente, è il sistema riproduttore, le ovaie, una meccanica prettamente animale in cui i diversi regni condividono comunque questa forma per produrre una discendenza. Il secondo attinge all’uovo cosmico, forma perfetta che racchiude la totalità del mondo, forma totalitaria che rinchiude tutte le modalità del mondo. In Tempesta, un video che feci nel 2018, il piede di una donna pestava un uovo per strada esattamente come fosse una merda. L’uovo, per un soggetto politico e aggiungerei per una donna, è un destino di merda.
La maternità, che è ben diverso dall’avere un bambino, non è niente, è full of sound and fury signifying nothing. È fuffa, è un guscio vuoto. È il modo di nominare tutto ciò che ci vincolerà
Cos’è oggi la maternità? Perché la si cerca? Perché la si fugge? Al di là delle motivazioni (tutte vere) sociologiche della mancanza di servizi, di stabilità del lavoro, di accesso alla casa… Che rapporto abbiamo noi donne oggi con la maternità, a quel livello intimo che l’arte arriva a cogliere?
La maternità non è niente, è full of sound and fury signifying nothing, cioè è fuffa, è un guscio vuoto (ancora un uovo), è il mero retaggio di tutti quei anni del neolitico in cui la paternità ha avuto principalmente il valore di lex e nomen. La maternità, che è ben diverso di avere un bambino, è il modo di nominare tutto ciò che ci vincolerà: nominare è dominare, per cui è un ruolo definito da un insieme rizomatico di sacralità, vale a dire di oppressione. Io non so perché la si cerchi in tempi disastrosi come i nostri, aldilà delle politiche miopi che riguardano il sostegno per chi ha un figlio piccolo. Non so perché a trent’anni mi è venuta la fissa di voler un figlio o una figlia e a dire il vero lo avrei fatto con chiunque, ma pare che il mio super-ego mi abbia salvata. È quasi una questione sulla quale è, a mio parere, meglio non riflettere troppo, perché le risposte potrebbero essere degradanti. L’orologio biologico? La pressione sociale e, in concomitanza, il conformismo? La paura di non poterlo più fare dopo? La necessità di ritrovare il senso così potente del primo amore? Che ne so io? E chi sono per parlare per le altre? Quello che so è che fare un figlio o una figlia mette un termine radicale all’eternità e crea una temporalità in cui la morte entra in scena in modo irruente e perenne. Il mio rapporto con la “maternità” è quello di una convivenza ormai imprescindibile con la morte: la mia. Sono stata sputata dall’eternità, questo sì, e in quanto sono madre, sono mortale. Fortunatamente, questo mi riguarda e non è il rapporto che ho con mio figlio.
Quello che so è che fare un figlio o una figlia mette un termine radicale all’eternità e crea una temporalità in cui la morte entra in scena in modo irruente e perenne. Il mio rapporto con la “maternità” è quello di una convivenza ormai imprescindibile con la morte: la mia
Byung-Chul Han dice che in questo storytelling rumoroso in cui siamo costantemente immersi abbiamo perso la capacità di narrare. Ma siccome sono i racconti a rendere possibile l’emergere di una comunità, abbiamo perso la comunità: lo storytelling genera solo community, che è la versione mercificata della comunità. Il recupero del mito oggi ha senso? È possibile?
Il recupero del mito è secondo me fondamentale; pervade tutta la mia pratica artistica e più generalmente, la mia vita. Pertanto non saprei se ha senso e sia possibile: non c’è niente di più malleabile di un mito, niente di più politico, niente di più “abbreviabile”. Un esempio? «Edipo è colui che uccise suo padre e fece sesso con sua madre»: mi sa che il numero di battute calza perfettamente con quelle per un post sui social. Dobbiamo sempre essere diffidenti verso quello che crediamo di poter affermare come miglioramento, specialmente se, come me, siamo dei moralisti del Seicento travestiti nelle vesti di una giullare odierna.
Dovesse immaginare una Medea a Traversetolo, quale dettaglio o oggetto le viene in mente come elemento emblematico e perché?
Una pillola abortiva e non credo di dover spiegare il perché.
In apertura, Margaux Bricler, “Omelette tragique”, 2023. Foto di Polina Mordvinova & Vladimir Mordvinov / Armenia Studio
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