Quando si parla dell’Africa vengono istintivamente alla mente le crisi del Darfur come anche della Somalia. Per non parlare di tutti i disastri avvenuti in questi anni nella Regione dei Grandi Laghi. Eppure bisogna evitare di scadere nelle solite banalizzazioniforvianti, come anche nei luoghi comuni che costituiscono il lievito del pregiudizio. Stiamo parlando in fondo di un continente che ha delle straordinarie potenzialità e che soprattutto non può essere giudicato ogni volta impietosamente quasi fosse la perpetua metafora di tutte le disgrazie umane. Un esempio emblematico di questo cambiamento in atto è costituito dal Trattato di Pelindaba, entrato in vigore nel luglio scorso, siglato tra 54 Stati africani per proibire le armi nucleari in Africa, creando così una zona significativa del nostro pianeta libera dalla presenza di questi micidiali ordigni. Premesso che la stampa occidentale non mi pare abbia dato grande risalto a questa iniziativa, si tratta di un’intesa multilaterale, vincolante dal punto di vista del diritto, che segna un cambiamento epocale, consentendo al consesso delle nazioni africane di adottare un deciso atteggiamento politico contro la proliferazione nucleare e i traffici illegali di materiali radioattivi in vista della Conferenza di Riesame del Trattato di Non Proliferazione (Tnp), che si terrà a New York nel maggio 2010. In sostanza il messaggio che l’Africa intende lanciare al mondo attraverso il Trattato di Pelindaba è chiaro e diretto: occorre assicurare politicamente il disarmo, la sicurezza e la cooperazione ad usi civili del nucleare sotto le verifiche dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica e della Commissione Africana sull’Energia Nucleare. Forse non tutti sanno che i legami tra il continente africano e le armi nucleari sono di antica data. Infatti l’uranio impiegato nella bomba sganciata su Hiroshima nel 1945 proveniva da una miniera dell’allora Congo Belga (l’attuale Rd Congo); per non parlare dei primi esperimenti nucleari francesi compiuti nel Sahara algerino. Successivamente venne messo a punto dal regime razzista di Pretoria un programma nucleare militare nella località di Pelindaba, da cui deriva il nome del Trattato di cui stiamo parlando. Un’intesa che ha praticamente ribaltato la politica militarista del governo sadafricano ai tempi dell’apartheid. Ma per comprendere il significato e lo spessore di questa illuminata iniziativa occorre tenere presente, come scrive Giorgio Alba in un interessante dossier pubblicato dall’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo, che esso copre l’intera area geografica del continente africano come anche le isole circostanti, garantisce che nessuna arma nucleare sia sviluppata, prodotta, testata, o in qualsiasi modo acquistata o introdotta nei Paesi del continente, e ne proibisce l’uso e la minaccia di uso. Il Trattato inoltre contiene tre ulteriori accordi che riguardano Spagna, Regno Unito, Francia, Cina, Russia e Stati Uniti. Aderendo a questi protocolli, i suddetti Paesi si impegnano a rispettare lo status di questa zona libera da armi nucleari contribuendo alla non proliferazione nucleare, ma Regno Unito e Stati Uniti devono ancora chiarire la questione della base aeronavale di Diego Garcia, dichiarandola libera da armi nucleari. Il Trattato indica la sicurezza nucleare come un elemento importante, esso impegna gli aderenti ad applicare i più alti standard di sicurezza. D’altronde l’Africa da sola non è in grado di difendersi dai rischi della proliferazione nucleare, inclusa la gestione delle miniere di uranio e dei rifiuti radioattivi, il controllo del territorio e dei traffici navali. Le potenziali minacce sono numerose: criminalità comune, criminalità organizzata, gruppi terroristici, carenze di controllo e gestione da parte delle imprese, che espongono al rischio di incidenti, furti, attività ambientali illegali e anche attacchi contro le installazioni e centrali nucleari. Una cosa è certa, la proliferazione nucleare è un problema politico ed è dunque importante che la comunità internazionale assegni una maggiore enfasi alle soluzioni politiche e diplomatiche. L’accresciuta produzione di armi e, più in generale, l’incremento della spesa militare, che vedono ai primi posti i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, non sono certamente in funzione, soltanto, della difesa di tali Paesi, ma vanno in buona misura ad alimentare le rispettive quote di commercio internazionale. Col risultato di accrescere la condizione di vulnerabilità e precarietà della vita di tutti nel pianeta. L’Africa da questo punto di vista ha dato buon esempio a tutti. Si vis pacem para pacem!
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