Cultura

Tratta connection

Il reportage che Chiara Caprio ha scritto per Vita Magazine in cui racconta l'inchiesta realizzata con la troupe di Al Jazeera sul traffico di donne tra Italia e Nigeria. Oggi quel documentario è in finale nella sezione internazionale del premio Ilaria Alpi

di Redazione

È qui nel ghetto di Destra Volturno, un assembramento di case, un tempo residenza estiva per i turisti napoletani, circondato da fiori e adagiato in riva al mare, che si svolge il funerale di Mary Morad. A Castel Volturno su 25mila abitanti ufficiali, oltre un terzo, e forse più, sono africani. Ghanesi e nigeriani, soprattutto.

Siamo arrivati con la troupe di Al Jazeera, che per raccontare i luoghi dove la migrazione incontra il crimine organizzato ha scelto questo angolo dimenticato da tutti dopo la guerriglia del settembre 2008, quando diverse centinaia di immigrati scesero in strada abbandonandosi ad atti di teppismo per vendicare il massacro di sei africani compiuto dalla banda di Giuseppe Setola, braccio armato del clan dei Casalesi.

Mary era una bambina ghanese di 7 anni. È stata uccisa da un uomo con problemi psichiatrici, da tutti considerato solo l’autore materiale del delitto. Si aspetta la bara, la tensione sale. Bose Atta, la madre nigeriana, trafficata in Italia per prostituirsi, si agita e piange, mentre le amiche si scagliano contro il padre, un uomo ghanese con passaporto liberiano, oggi sposato con un’altra donna nigeriana, Edith. «Spesso non gli davano nemmeno da mangiare,» racconta un’amica di Bose. «La picchiavano, soprattutto la madre adottiva», dice un’altra.

Il necrologio di Mary Morad

Finalmente la bara arriva, e un gruppo di uomini dà inizio a un rito musulmano. Poi parte un corteo improvvisato e lo scompiglio degenera in una marcia fino al cimitero nuovo. Il sole cuoce il dolore di una comunità, travagliata al proprio interno da minacce reciproche e rabbia.
 

La bara di Mary arriva a Destra Volturno

«La Domitiana attraversa Castel Volturno per 28 chilometri», spiega Stefano Ricciardiello, ispettore della sezione investigativa del commissariato locale, una piccola sede un po’ scalcagnata e sommersa di fascicoli vecchi e nuovi, aperti per omicidi efferati, rimpatri e per qualche italiano in domicilio forzato. «Le attività delle nuove mafie africane hanno invaso l’intero territorio, non solo alcuni quartieri»: è per queste strade che Ricciardiello ci porta, lungo le arterie di campagna che connettono il litorale con l’interno. Qui, una dopo l’altra, si avvicendano ragazzine e donne, in attesa di clienti.

Secondo quanto riporta Unicri, centro di ricerca delle Nazioni Unite, l’Italia è al momento la principale destinazione di oltre 10mila prostitute nigeriane, trafficate da Benin City fino alle grandi città e agli hub criminali, primo fra tutti il litorale domiziano. «I criminali nigeriani», interviene Giovanni Conzo, procuratore antimafia della Dda di Napoli, uno dei magistrati che meglio conosce la frontiera domiziana, «stringono accordi con tutti, dai colombiani ai cinesi, ma in Italia trovano terreno fertile anche per altri motivi: l’altissima richiesta di prostitute da parte dei maschi italiani». Il risultato? «L’organizzazione sul territorio è sempre più potente. Andrebbe fermata prima che ne assuma il controllo totale». Ma per ora quello di Conzo, purtroppo, è solo un augurio.
 

Ragazza nigeriana si prostituisce lungo la Domitiana

Isoke Aikpitanyi, ex vittima di tratta oggi principale punto di riferimento per le donne nigeriane in Italia, conosce bene la realtà del Casertano. Passeggia per il centro del paese, «di giorno non ho problemi, ma di notte non posso mai stare sola, soprattutto in viaggio». Secondo i suoi dati, «in Italia ci sarebbero al momento circa 10mila madam, ognuna controlla due/tre ragazze». Le madam sono la chiave. Sono lo snodo principale per lo sfruttamento. Sono loro a costringere le ragazze a lavorare in strada o in appartamento, sono loro a chiedere i soldi quotidianamente e, allo stesso tempo, a dover provvedere alla casa e a risolvere eventuali controversie. Insieme alla madam, lavorano i brothers, a cui spetta il compito di “recapitare” le baby, le ragazze obbligate a prostituirsi. Alla tratta è spesso associato il traffico di droga e gli usi distorti delle tradizioni religiose.
 
«Lo juju, il rito voodoo, non è di per sé una pratica malvagia. Serviva a portare giustizia, ma loro hanno rovinato tutto», dice Isoke con rabbia. «A loro non interessa come fanno i soldi, l’importante è farli, e questo ha creato una comunità nigeriana spersa, scioccata, senza equilibrio e riferimenti. Qui lo juju è usato per schiavizzarti».

Ma perfino in questo inferno, c’è chi cerca di non smarrire il filo della speranza. Suor Antonia, possente nigeriana dell’ordine del Sacred Heart of Jesus, a Castel Volturno gestisce la Casa Santa Maria dell’Accoglienza, creata nel 2000 all’interno del Centro Fernandes per iniziativa della Caritas di Capua. In questi corridoi sono passate oltre 70 donne e sono nati 10 bambini. «Siamo state chiamate dal vescovo di Capua, monsignor Bruno Schettino, per promuovere l’integrazione di queste ragazze, tutte ex prostitute che abbiamo incontrato facendo i turni in strada, la notte. Sanno che se vogliono cambiare la propria vita, hanno questa possibilità e possono venire qui». Le donne che accettano questo percorso si fermano tra i sei mesi e un anno, periodo di tempo in cui si dedicano a corsi di formazione e a «riappropriarsi della propria dignità». Le suore lasciano alle donne la libertà di scrivere la propria storia, di raccontare quello che è accaduto e chi le ha costrette a prostituirsi. «Cerchiamo anche di far capire alle ragazze che se smettono di credere allo juju, questa maledizione voodoo non avrà alcun effetto su di loro».

Purtroppo però intercettare le ragazze è sempre più complicato. Giulia (nome di fantasia per motivi di sicurezza, ndr) lavora ancora sulle strade di Castel Volturno ed è costretta a ripagare il debito di circa 40mila euro. «E devi farlo, perché se non lo fai possono creare dei pupazzi che ti fanno impazzire», spiega durante il nostro incontro nel cuore della notte. Sospira a lungo, Giulia, prima di continuare a parlare. «Non sono felice. Non sono felice di me stessa, del mio corpo e di questo lavoro. Ma ho un progetto, ho promesso di pagare. Devo farlo. Ma fermiamoci qui», dice con occhi sgranati e fermando le parole anche con i pugni stretti. «Non posso parlare. Non posso. È troppo pericoloso parlare di questo, anche per la mia famiglia. Ma lasciami dire una cosa: sto portando una croce per loro, proprio come fece Gesù Cristo».

(Per vedere la seconda parte del documentario clicca qui)

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