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Trasgredire senza un fine, perciò senza una fine

Il giorno dopo la challenge del suv lanciata da un gruppo di ventenni, che a Casal Palocco ha fatto da sfondo a un incidente che ha causato la morte di un bimbo di 5 anni, Raffaele Mantegazza riflette sulle dinamiche con cui i social hanno trasformato la naturale dimensione di sfida che c'è negli adolescenti. Oggi non c'è più il fine di far colpo sul proprio gruppo, contano solo le visualizzazioni. «Dobbiamo uscire dal delirio quantitativo, potenzialmente senza fine e tornare a far sperimentare ai ragazzi la profondità di una relazione autentica, in cui sentano la loro unicità», dice il pedagogista

di Sara De Carli

Vanità, vacuità, delirio di onnipotenza, dipendenza dai like. Sono le categorie che affiorano quasi spontaneamente per decodificare il fatto di cronaca che ieri ha visto morire un bimbo di 5 anni, in un incidente stradale che ha sullo sfondo (al momento non si sa se e con quali nessi causali) una challenge da condividere su YouTube – 50 ore alla guida di un Suv di lusso – lanciata dai TheBorderline. Spiegare il caso specifico è impossibile. Ma non forse cercare delle chiavi di lettura rispetto al frame in cui si muove una intera generazione. Raffaele Mantegazza è un educatore e un pedagogista. Insegna Scienze pedagogiche al Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università di Milano – Bicocca.

«Ho visto come tutti il video postato da uno dei ragazzi prima dell’inizio della sfida, in cui – ironia del destino – prende in giro proprio chi ha una Smart. Mi è venuta in mente anche l’altra ragazza, quella del corsivo, che poche settimane fa ha detto che “se guadagnate solo 1.300 euro al mese è colpa vostra”. Non stiamo parlando più di consumismo, da di consumismo come stile di vita, che divide in due l’umanità: quelli che possono e quelli che non possono», dice il professore. L’altro tema è quello dell’aggressività: «Non vedo più come tratto caratterizzante la ricerca della trasgressività, quanto piuttosto molta aggressività».

La mancanza di senso del limite e la ricerca della sfida tipici dell’adolescenza cambiano completamente, oggi, sul palcoscenico globale dei social. «È il fatto che oggi la tua bravata la vedono in 500mila persone sui social a dare un senso di onnipotenza. Questo peraltro ti spinge continuamente ad alzare l’asticella del gesto folle: non metti più in atto qualcosa per stupire la tua cerchia di amici o la ragazza su cui vuoi fare colpo, ma cerchi la logica quantitativa ma indifferenziata dell’accumulo. L’adolescente non deve essere “sobrio”, io capisco che voglia l’eccesso, ma oggi al centro del tuo interesse non c’è più la cerchia ristretta delle persone con cui sei in relazione e rispetto a cui cerchi conferme della tua unicità, a volte anche in maniera stupida o facendo cose rischiose per pavoneggiarti un po’…», dice Mantegazza. Il problema è che «oggi sui social la relazione è orizzontale e indistinta, meramente quantitativa. Davanti a te c’è un pubblico che non conosci, potenzialmente infinito. Ma se conta solo il numero, se il fine è solo quello, tu continuerai a spingerti oltre il limite perché la dimensione numerica non ha limiti per definizione. Puoi sempre andare oltre. È la logica dell’accumulo, non c’è più il fine di far colpo su qualcuno».

E se non c’è più un fine, non c’è più nemmeno una fine. «Se l’altro ieri il lanciare una sfida ad un insegnante era una bravata che si esauriva nella tua classe o al massimo nella tua scuola e ieri un video in cui un ragazzo lanciava una sedia contro il docente diventava virale, oggi quella è una cosa lì è un dejà vu e dovrai alzare il tiro per avere visualizzazioni», riflette Mantegazza. «Non sto dicendo che “è tutta colpa dei social” ma certamente dobbiamo tenere presente che questa logica che appiattisce tutto sulla quantità inevitabilmente banalizza anche una tragedia come quella di ieri»

Che fare allora? «Io penso che i ragazzi abbiano bisogno di fare esperienze emozionali forti, coinvolgenti, che però non portino alla distruzione. La voglia di visibilità e di unicità non è condannare, ma da riportare dentro i contesti di vita. Fargli fare esperienze in cui capiscono che la qualità del rapporto è cosa diversa dalla quantità, che le relazioni richiedono tempo, che puoi anche pavoneggiarti ma per far colpo su quella persona o quel gruppo. Che gli amici sono quelli a cui puoi confidare segreti, gli altri sono “contatti”. Magari gli amici sono pochi, ma non c’è nulla di male in questo. Io temo questa orizzontalizzazione delle relazioni. Dobbiamo uscire dal delirio quantitativo, che è infinito». Il tema quindi è sperimentare una relazione in cui possano sì sentirsi unici, ma in modo positivo: «Però se anche nella scuola trovano solo omologazione, non sono valorizzati come singoli ma livellati sul voto… se non trovano nelle relazioni sane la risposta al loro desiderio di unicità, andranno a cercarlo in relazioni patologiche».

L’ultima riflessione di Mantegazza è questa: «Credo che su temi così tremendi occorra un patto generazionale, nel senso che non devono essere solo gli adulti a parlare ai ragazzi ma loro stessi (che nella stragrande maggioranza non sono come questi di Casal Palocco) a rivolgersi ai loro coetanei, anche usando i social, per trasmettere messaggi positivi. Un ragazzo accetta maggiormente il messaggio di un coetaneo, coi linguaggi loro propri, anche perché lo sente più come un consiglio che come un sermone. In questo dovrebbero avere per esempio un ruolo i rapper che danno messaggi positivi, che sono purtroppo coperti e sommersi dai loro colleghi che inneggiano all'eccesso e allo sballo. Credo che un atteggiamento di questo tipo, ovvero dare ai ragazzi la corresponsabilità di diffondere messaggi positivi, dimostrerebbe la nostra fiducia in loro. Vale anche su altri temi, per esempio la sessualità responsabile e consapevole».


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