Volontariato

Tra terrorismo e terremoto: dov’è la difesa?

di Pasquale Pugliese

Se ogni tre giorni spendiamo per la difesa militare più del budget annuo per la difesa antisismica del territorio, è giunto il momento di ridefinire culturalmente e politicamente il concetto di difesa, sottraendolo alla ricerca del nemico e al conseguente riduzionismo militarista che risucchia tutte le risorse destinate a questa voce di spesa.

Prologo. Per alcuni anni – a cavallo del passaggio di secolo – sono stato educatore nei Gruppi Educativi Territoriali di Reggio Emilia, centri pomeridiani dove la pratica educativa nella complessità culturale era – già allora – la regola. Ricordo una gita al mare, in Liguria, con il gruppo dei ragazzini di prima media: una di loro di religione musulmana, Khadija, conquistato con i propri genitori il diritto a venire in gita, porta con sé nello zainetto, insieme alla merenda, anche abiti e hjiab di ricambio. Giunti in spiaggia, osserva i compagni di gita spogliarsi, rimanere in costume o in calzoncini corti e poi, insieme a loro si getta in acqua, vestita. Dopo il lungo bagno le altre ragazzine del gruppo – complici e solidali – organizzano per lei un curato sipario, che la occulta agli sguardi indiscreti, dietro il quale Kadija si cambia i vestiti ed il hjiab. E’ asciutta e pronta tornare a casa. Felice.

Quindici anni dopo, al di là delle polemiche che ha scatenato anche in Italia, che cosa ci dice la vicenda del divieto del burkini su alcune spiagge della Costa Azzurra, che costringe – di fatto – le donne musulmane francesi a rinunciare al diritto al mare? Questo divieto che – non allarga, ma restringe i diritti delle donne – viene dopo e in conseguenza alla strage di Nizza, compiuta da un uomo che “aveva precedenti penali, beveva alcolici, mangiava carne di maiale, si drogava, non digiunava, non pregava, non frequentava regolarmente la moschea e non era affatto religioso ” (Noam Chomsky, 18 agosto 2016). Seppur aiutato da alcune cellule islamiste – come pare essere emerso dalle indagini – rimane che 30 delle 84 vittime di questo attentato erano di religione musulmana. Dunque i musulmani sono senz’altro – anche in Francia, come accade regolarmente nel resto del mondo – più vittime del terrorismo che suoi complici.

Che cosa c’entra, dunque, il divieto francese di stare sulla spiaggia in burkini con il terrorismo? Apparentemente nulla, sul piano del pensiero razionale, in realtà molto sul piano della irrazionale paura dell’altro, che fa avvertire come una minaccia – ma senza alcun nesso logico diretto – qualunque manifestazione pubblica di religiosità musulmana. Insomma, questo provvedimento si configura come ricerca, individuazione e difesa da un nemico interno, che fa il pari con i bombardamenti francesi su Raqqa, in Siria – contro il nemico esterno – dopo gli attentati al Bataclan, mentre gli attentatori erano cresciuti e si erano radicalizzati nelle banlieue di Parigi e di Bruxelles. In entrambi i casi si tratta di tentativi di difesa incongrui e controproduttivi rispetto ai problemi ai quali vorrebbero dare risposta. La reazione violenta alla violenza subita – con il divieto antiliberale da un lato e la guerra dall’altro – è paradigmatica del pensiero unico – non solo francese – fondato sulla ricerca del nemico da abbattere sul piano simbolico (il burkini) o su quello diretto (i bombardamenti) quale risposta a qualunque tipo di minaccia, senza comprenderne le cause generatrici. Non a caso, almeno rispetto al burkini, il Consiglio di Stato francese ha ordinato la sospensione del divieto in quanto “violazione grave e evidentemente illegale delle libertà fondamentali, come la libertà di circolazione, di coscienza e la libertà personale”.

Il caso francese è emblematico di una complessiva militarizzazione delle relazioni umane, mentre la maggior parte delle minacce reali che attentano alla sicurezza globale non necessitano di risposte militari, ma di tutt’altro tipo. E’ quanto ribadito, tra gli altri, non da un think thank pacifista ma dal Global risk report, il rapporto annuale sui rischi globali compilato da 750 esperti del World Economic Forum di Davos: i rischi veri per l’umanità nei prossimi 10 anni saranno la mancanza di acqua, il cambiamento climatico, le catastrofi naturali, le carestie, l’instabilità sociale. Minacce che non giustificano in nessun modo la spesa militare globale annua di quasi 1.700 miliardi di dollari, la quale – al contrario – da un lato sottrae enormi risorse alla capacità di affrontare questi rischi per la sicurezza di tutti, dall’altro incrementa la minaccia della guerra, insieme alle migrazioni ed alle “crisi degli Stati” che ne sono conseguenza diretta.

ll terremoto che ha ancora una volta colpito tragicamente l’Italia, oltre ad essere una delle principali catastrofi naturali elencate dal “Global risk report 2016”, è una minaccia specifica – certa e costante – per il nostro Paese. L’Italia registra uno dei più alti rischi sismici del pianeta e i terremoti hanno ucciso, nel tempo, centinaia di migliaia di italiani, forse milioni. Gli stessi luoghi epicentro di questa catastrofe – Amatrice, Accumoli e dintorni – sono stati più volte, nei secoli, distrutti da analoghi eventi sismici. Eppure, l’ultimo “piano antisismico nazionale” di cui si ha notizia, del 2014, prevedeva appena 195,6 milioni di euro per la difesa e messa in sicurezza di un intero Paese dalla minaccia dei terremoti. Contemporaneamente la spesa pubblica militare del nostro Paese – chiamata “Difesa” per la sicurezza degli italiani – è, stabilmente, anno dopo anno, di ben oltre i 20 miliardi di euro, ossia di 80 milioni al giorno. L’unica sicurezza che queste risorse – sottratte alla difesa dalle reali minacce – difendono davvero è, di fatto, quella dei produttori di armamenti.

Dunque, se ogni tre giorni spendiamo per la difesa militare più del budget annuo per la difesa antisismica del territorio, è giunto il momento di ridefinire culturalmente e politicamente il concetto di difesa, sottraendolo alla ricerca del nemico e al conseguente riduzionismo militarista che risucchia tutte le risosrse destinate a questa voce di spesa. E’ necessario rendere la difesa più complessa e adeguata al panorama delle autentiche minacce dalle quali abbiamo bisogno di difenderci. L’abnorme spesa militare italiana risponde alla logica semplicistica che legge le minacce alla luce dell’unico strumento di risposta del quale i governi si sono dotati, non consentendo – al contrario – di approntare e organizzare le giuste e differenziate difese, una volta individuati e analizzati i diversi rischi. La maggior parte delle minacce reali – quelle indicate dal Global risk report, che sappiamo essere particolamente vere per il nostro Paese – non hanno nessun nemico da abbattere violentemente, eppure i governi (la Francia, l’Italia e non solo) continuano a fare uso quasi esclusivamente di quei dispositivi militari (e repressivi) che – anziché costruire più sicurezza – rendono tutti più indifesi. E ripetutamente colpiti.

Epilogo. In questi giorni centinaia di volontari, arrivati sui luoghi del terremoto, lavorano senza risparmio, fianco a fianco ai Vigili del fuoco, salvando vite e aiutando le popolazioni martoriate (e diversi di essi sono giovani musulmane velate n.d.r.). Analogamente ai tanti volontari che, attraverso le organizzazioni internazionali fanno solidarietà e mediazione dei conflitti in molti territori di guerra del pianeta, essi assumono su di se la responsabilità di una vera e propria difesa civile, non armata e nonviolenta del Paese. Esercitano, dal basso, un paradigma differente rispetto alla difesa armata, difendendo la vita, l’umanità, la dignità delle persone con la forza della generosità. Sono queste anche le ragioni profonde della Campagna Un’altra difesa è possibile che vuole introdurre nel nostro Paese – secondo la lettera e lo spirito della Costituzione – un nuovo sistema di difesa, articolato e complesso, che rompa il monopolio della Difesa militare. E liberi – finalmente – le risorse necessarie alla difesa della sicurezza delle persone. Non affidandola più solo al buon cuore dei volontari, a disastro avvenuto.

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.