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Totti è lo specchio del Paese

Il sociologo Sergio Manghi analizza la vicenda dell'ex capitano della Roma come incarnazione di un intero Paese. «Quella conferenza stampa grondava sentimentalismo, provincialismo e nostalgia tipicamente italiane. E rappresenta bene, non tanto la romanità, quanto tutta l'Italia»

di Lorenzo Maria Alvaro

Ieri è andato in scena l'addio alla Roma da dirigente di Francesco Totti. Una conferenza stampa irrituale e inedita. Non tanto per la diretta sulla Rai o per la location, la sala d'onore del Comitato Olimpico Nazionale Italiano, e neanche per gli ospiti, il presidente del Coni Giovanni Malagò, lo scrittore Paolo Condò e centocinquanta giornalisti accreditati. Il fatto più alienante è che tutto questo è stato allestito per permettere ad un ex calciatore di spiegare le proprie scelte professionali e dire il proprio parere sulla dirigenza della società che stava abbandonando. Una prima assoluta. Mai era successo qualcosa di simile. Per qualcuno quell'ora e mezza di domande e risposte di ieri ha a che fare con l'Italia e con l'essere italiani molto più di un semplice fatto di cronaca sportiva. «Un evento che è pieno di segni da intepretare», sottolinea Sergio Manghi, professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università degli Studi di Parma e autore di “Zidane. Anatomia di una testata mondiale”.



Cosa l'ha colpita di più della conferenza stampa di Francesco Totti?
Due diversi piani. Il primo è quella della romanità. Roma ha una unicità per cui un evento del genere non è immaginabile in nessun altra città italiana. A Roma c'è una cultura calcistica molto peculiare, basti pensare alle famose radio cui ha fatto riferimento lo stesso Totti, canali su cui sono connesse intere fette della popolazione cittadina 24 ore su 24. Totti è il rappresentante forse più importante di questa romanità. Ha consacrato la sua vita a questa appartenenza popolar romantica.

Neanche a Napoli secondo lei potrebbe succedere qualcosa di simile? Pensi ad esempio a Maradona?
A Napoli però manca l'aspetto istituzionale. Le manifestazioni partenopee rispetto al calcio sono sicuramente colorite ma sono esclusivamente popolari. A Roma invece c'è un aspetto di politicizzazione immediata che porta tutto immediatamente sul piano istituzionale. È la città governativa per eccellenza, la Capitale del Paese. Una caratteristica della Città Eterna che è plurisecolare. Si veda la sede del Coni gentilmente offerta.

Parlava di due piani. Quale il secondo?
Sì, oltre alla romanità c'è un livello più generale. Totti è una figura amata oltre i confini della sua città. È un personaggio benvoluto da tutto il Paese. È benvoluto da tutti, ha questa aria da bravo ragazzo che piace, è sposato con una show girl di successo ma con questo non viene percepito parte dell'establishment ma rimane vicino al popolo. Tutto questo fa riferimento al culto del calcio che in Italia è unico in Europa. La celebre frase di Winston Churchill sugli italiani che «perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre» non fu detta a caso.

Lei vede nel rito andato in onda ieri uno specchio del Paese. In cosa?
Ha molto a che fare con la nostra Storia in cui l'aspetto nazionale in senso stretto quasi non esiste e si tocca soltanto quando si toccano corde molto sentimentale e locali. Il localismo e il romanismo di Totti sanno di popolino italiano in generale. È lo stessa ragione per cui io che sono di Parma vivo una forte conflittualità con i reggiani. La Patria dell'italiano è il cortile di casa, il paese, la città. Ecco perché si fa una diretta della Rai per un evento del genere. Non è tanto il fatto che la Rai oggi è sotto l'influenza della retorica governativa populista ma proprio in ossequio a questo nostro Dna.

Insomma un esempio lampante del nostro provincialismo…
Bè quando Totti dice che arrivano gli americani che hanno voluto cacciare i romani ma un giorno tornerà in Curva non è solo patetico. È incredibilmente provinciale.

Oltre a provincialismo e sentimentalismo si riconosce in questa vicenda anche una costante tendenza a vivere in un passato glorioso che non c'è più dell'Italia…
Non c'è dubbio. Questa nostalgia dei tempi andati è profondamente italiano. Come lo è il voler ricostruire un passato più glorioso di quello che è. Da Virgilio in poi ciò che è stato è sempre meglio di quello che è venuto dopo e onora chi ha vissuto quel passato di grande epicità

Una fotografia da cui non sfuggono neanche i giornalisti che si sono prestati a questo spettacolo senza colpo ferire…
Naturalmente ci sono anche bravi giornalisti. Ma il problema è generale. Non voglio giudicare ciò che è giusto o meno. Osservo solo che il mondo dei media continua a coltivare, nonostante le dichiarazione e le apparenze, questa idea che il calcio sia un mondo a parte, altro e chiuso su sé stesso. È un'idea assurda. Nessuna pratica umana è solo quella pratica, ma è sempre anche una pratica sociale di importanza generale. Il calcio addirittura possiamo dire che sia il collante principale dell'identità italiana proprio grazie ai conflitti tra luoghi, l'organizzazione di questi conflitti costante e continua nel tempo e le decine di migliaia di partite che si giocano ogni settimana. Un fenomeno che coinvolge tutta l'Italia, compresi quelli che dicono di non poterne più del calcio. I giornalisti continuano a non capire che una cosa come il calcio, che occupa la mente il cuore e le azioni di milioni di persone, non è solo uno sport. Hanno una responsabilità formativa ed educativa enorme di cui non si assumono l'onere. Ripeto spesso che si dovrebbero costruire sistematicamente contesti in cui i docenti italiani incontrino allenatori di vari sport e dove venga favorita una interazione. Questo perché si tratta di due mondi molto più contigui di quanto si creda. Invece i giornalisti preferiscono raccontare l'ottavo re di Roma, la telenovela del Pupone e il polpettone nazional popolare con la moglie e i figli dai nomi improbabili. Tutto senza accorgersi che sarebbe una bellissima occasione per cogliere dimensioni molto profonde della nostra vita e del nostro Paese.

C'è anche chi ha sottolineato l'hubris secondo cui il fatto di essere stati grandi calciatori significhi automaticamente avere diritto ad un ruolo dirigenziale. Non servono studio, esperienza o pratica…
È un aspetto di grande attualità. È molto comune pensare che basti poco per essere competenti. O addirittura che non serva esserlo. Abbiamo un Governo che teorizza proprio questo. È un segno dei tempi. Dire che per fare un certo lavoro serva del tempo per imparare, che dovrebbe essere un concetto elementare, oggi è visto come reazionario. La cosa sorprendente è che Totti ritenga che per essere onorato come bandiera debba ricoprire una carica che non è affatto onorifica costruendo un automatismo che non esiste.

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