Welfare

Torture quotidiane nelle galere made in Italy

I medici penitenziari non vogliono aprire le porte ai medici della sanità nazionale. Non vogliono che si sappia che,la salute di un carcerato viene messa nelle mani di uno studente.

di Redazione

Giocando a pallone, tre anni fa, mi rompo il menisco. Non posso più stare in piedi e mi costringono ad operarmi presso il Centro clinico penitenziario di Messina: anestesia totale, un’ora e tre quarti sotto i ferri di un giovane che grazie a me finalmente poteva approfittarne per sostenere l’esame di pratica ortopedica. Dopo 15 giorni cominciano i dolori, sento che qualcosa non va e i miei sospetti vengono confermati da un bravo fisioterapista che mi consiglia una visita specialistica a mie spese. Così mi faccio visitare dal professor Simonetta, il quale accerta il fallimento dell’intervento e mi suggerisce di operarmi subito, magari nella clinica Caminiti di Villa san Giovanni dove il professor Simonetta lavora. Mi assicura che tutto si risolverà in venti minuti. Sfortuna vuole che nel frattempo io venga destinato altrove. Mi deportano nella prigione di Termini Imerese dove immediatamente informo la direzione del mio problema anche per poter continuare a tenere le stampelle e le ginocchiere. Chiedo una risonanza magnetica a mie spese per dimostrare che quanto ha detto il professor Simonetta risponde a verità, così scopro che la situazione è addirittura peggiore: oltre ai legamenti spezzati, ci sono residui ossei che si spostano rovinando sempre di più il resto. Oltre a strani versamenti di liquidi e sangue, il ginocchio è sempre più gonfio e il mio dolore è atroce, simile a quello che si prova quando si conficca un chiodo nell’osso. A questo punto il mio avvocato presenta un’istanza di ricovero in una clinica specializzata fuori dal circuito carcerario da cui dipendo e la Corte, non soddisfatta della perizia del professor Simonetta e dell’esito della risonanza magnetica, chiede ulteriori lumi al dirigente sanitario del carcere in cui mi trovo. Questo signore risponde con una relazione in cui afferma che il detenuto (e cioé io) non si era mai lamentato del ginocchio (sic!), non fa alcuna menzione delle stampelle e delle “domandine” da me presentate e dichiara che le mie condizioni di salute sono buone. Conclusione: visto che vado bene di corpo, posso benissimo farmi rioperare al ginocchio in un centro clinico carcerario! La Corte rigetta l’istanza, io protesto con il ministero di Giustizia dicendo che dopo essere stato massacrato in un centro clinico carcerario, non voglio tornarci e mi avvalgo del mio diritto a curarmi a mie spese in un centro specializzato. Così arrivano per la prima volta dei periti ortopedici da Roma per verificare la mia denuncia. A questo punto passo nelle mani del tal dottor Pora, dell’infermeria del carcere dell’Ucciardone, il quale, mosso chissà da quale compassione umana, mi dà ragione e dispone un intervento chirurgico urgente perché le mie condizioni di salute stanno modificando il mio equilibrio vertebrale e l’assetto del bacino. Così aggiungo anche questa nuova “prova del delitto” e ripresento la domanda del ricovero e dichiaro di essere disponibile a farmi operare anche con le manette a piedi, tanto il tutto non deve durare più di mezz’ora. Incredibile! Anche questa volta l’istanza viene rigettata con le stesse motivazioni e il giudice mi manda a dire che se proprio voglio farmi operare devo accettare di andare in un centro clinico penitenziario. E così da tre anni mi attacco alla stampella, patisco dolori insopportabili e così via. Un giorno incontro il dirigente sanitario di Termini Imerese, (cosa non facile visto che in carcere non viene mai) e gli chiedo: «Perché ha boicottato il mio ricovero?» Lui esplode dicendomi «Fontana, lei non sa cosa devo sopportare io. Giorni fa ho autorizzato un ricovero urgente per un detenuto che stava morendo di cuore, la procura di Palermo mi ha convocato e mi ha fatto un culo grosso come una capanna!». Fine della storia. Giuseppe Fontana Reggio Calabria Innanzitutto voglio ringraziare i detenuti del carcere di Sollicianino (Firenze), e del giornale Liberarsi dalla necessità dal carcere per avermi inviato la lettera del signor Fontana che mi ha lasciato senza parole. Sapevo che la medicina penitenziaria fosse una specie di truffa, ma non immaginavo fino a questo punto! Ora capisco perché i medici penitenziari non vogliono aprire le porte ai medici della sanità nazionale. Non vogliono che si sappia che, anche se per un detenuto viene spesa una somma cinque volte maggiore di quella destinata a un cittadino libero, la salute di un carcerato (la sua) viene messa nelle mani di uno studente di medicina. Non vogliono che si sappia delle partite di medicinali scaduti, comprati sottobanco da un farmacista di ventura, per poter incassare la metà della cifra spesa e poi buttarli via perché tanto i detenuti mica si curano no? Beh, signor Fontana, ora c’è una legge che dovrebbe mettere fine a questa vergogna: la sanità penitenziaria è passata al sistema nazionale. Se il suo ginocchio saprà aspettare, forse verrà il momento anche per lei di farsi operare da un medico vero.


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