“Mi fa pensare a Marcovaldo, quando raccolgono i funghi velenosi dall’aiuola sotto casa”. E’ stata la mia prima riflessione nel leggere, tempo fa, la storia della famiglia di Torino avvelenata dall’erba tossica, scambiata per cime di rapa. Marcovaldo è il titolo di una serie di racconti, scritta da Calvino nel 1963 ed ambientata in una città industriale non precisata, ma che ricorda in tutto e per tutto Torino. Si raccontano le vicende di una famiglia. I protagonisti sono dei prototipi di cittadini già alienati dal cemento e attanagliati dai problemi economici.
Marcovaldo, il capofamiglia, sua moglie ed i suoi figli, sognano la fuga, il contatto con la natura, che viene maldestramente cercato nello squallido verde a ridosso dei casermoni. Il personaggio di Calvino, cerca di procacciare cibo e guadagno per i suoi cari, sfruttando la natura come facevano i suoi avi in campagna, ma è solo un sogno, che dà risultati disastrosi. Anche l’anziana che ha coltivato l’erba trovata per strada, è una poetica sognatrice combinaguai come Marcovaldo. Oggi come cinquant’anni fa si raccoglie il cibo per strada, con l’illusione di averla fatta in barba alla sfortuna. Nella Torino del 2013 come in quella del 1963, la natura sembra volersi vendicare contro la cementificazione, rendendo subdolamente i veleni che ha ricevuto.
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