Economia

Torino è la nuova capitale delle armi italiane?

Ci si interroga così nell'ambito del Festival della non violenza in corso a Torino. La questione è del resto legittima e deriva dagli investimenti in atto presso l’area TNE di corso Settembrini e dell’Alenia di Corso Marche

di Fabrizio Floris

La domanda riecheggia nella sala del Centro Studi Sereno Regis: Torino è la nuova capitale delle armi italiane? Ci si interroga così nell'ambito del Festival della non violenza in corso a Torino. La questione è del resto legittima e deriva dagli investimenti in atto presso l’area TNE di corso Settembrini e dell’Alenia di Corso Marche. In entrambe il Politecnico di Torino e un pool di aziende capeggiate da Leonardo grazie ad un finanziamento sulla riconversione delle aree industriali (Ministro Calenda) hanno costituito due progetti di sviluppo industriale.

I focus di sviluppo sono diversi e intendono essere aspetti centrali di quella che viene chiamata l’industria 4.0 (la propulsione ibrido- elettrica, la manutenzione di nuova generazione, supportata dall’intelligenza artificiale e dai big data, il volo autonomo e i sistemi di monitoraggio e di ausilio per i piloti in situazioni ambientali critiche). Una serie di settori che sono al crocevia di armi, spazio e ricerca (già adesso Thales Alenia produce Eurofighter Typhoon, C-27J e F-35). È quindi legittimo chiedersi se questo è il futuro che vuole costruire Torino.

Ne hanno discusso durante un convegno i sindacalisti Edi Lazzi (FIOM); Davide Provenzano (FIM); Sergio Di Ruzza (UILM), l’assessore Marco Giusta (Assessore ai Diritti della Città di Torino) insieme agli esponenti del movimento Nonviolento e di Zaira Zafarana del coordinamento “A.G.i.Te. contro le atomiche, tutte le guerre ed i terrorismi”. Il primo elemento di discussione sono i cosiddetti sistemi duali sempre più diffusi ossia beni il cui utilizzo può essere sia a scopi civili che militari. Il campo dell’aeronautica è quasi completamente duale (così come il settore spaziale) infatti, materiali, componenti specifiche (motori, sensori …), tecniche di costruzione, conoscenze scientifiche del campo aeronautico sono intrinsecamente duali: utili per costruire aerei civili e militari. Ed è in questi ambiti che si muove lo sviluppo di Torino.

Poi, come spiega Davide Provenzano «vi sono produzioni che in base all’utilizzo diventano civili o di difesa. Ad esempio Leonardo produce elettronica per la difesa (radar), satelliti: mezzi montati sulle navi della Marina Militare e possono servire sia per contrastare l’immigrazione sia per il salvataggio delle persone in mare».
Emerge una sorta di dicotomia tra lavoro (posti da salvaguardare) ed armi. Secondo Edi Lazzi «non possiamo prendere una posizione ideologica “quelle fabbriche devono chiudere”, ma possiamo chiederci che cosa si può cambiare, come si può procedere verso un cambiamento. A Torino c’è una grande sofferenza negli ultimi 10 anni solo nel settore metalmeccanico si sono persi 18 mila posti di lavoro. Per capire la dimensione del fenomeno occorre considerare che nel 2006 – 2007 (gli ultimi anni senza cassa integrazione) si producevano 218 mila autovetture, nel 2019 sono state 21 mila quest’anno siamo a 8000 vetture (dati di agosto) e sarà un successo arrivare a 20 mila […]. Turismo, cultura e food, non sono in grado di sostituire i posti di lavoro persi nell’industria». E non sarebbero in grado di sostenere una eventuale riconversione. Si tratta secondo Sergio Di Ruzza di almeno 231 aziende e 29 mila lavoratori dipendenti. Un operaio della RWM di Domusnovas grida «fermate la guerra, non fermate le bombe perché tanto se non le prendono da noi le prendono da altri Paesi».

«È triste vedere che siamo sempre allo stesso punto» commenta Gianni D’Elia del movimento nonviolento. Bisogna fare un passo in più il lavoro va salvaguardato, ma deve essere buono, pulito e giusto. Su questo c’è un consenso unanime e disponibilità a discutere: fare incontrare movimenti pacifisti e lavoratori. «Finché, conclude Giovanni Ciavarella, non faremo diventare le armi tabù».
Come scriveva Montale «la storia non si fa strada, si ostina, detesta il poco a poco».

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