Famiglia

Togliatti e la democrazia italiana. Ripensare il passato per costruire la partecipazione futura

È arrivato il tempo per una rivalutazione critica di Togliatti. Una serie di studi fanno il punto sulla situazione

di Pietro Piro

Togliatti oltre le leggende nere

Alexander Höbel che da diversi anni contribuisce con la sua attività di storico a ricostruire le complesse trame del comunismo italiano (si veda ad esempio: Novant’anni dopo Livorno. Il Pci nella storia d’Italia con M. Albeltaro, Editori Riuniti 2014), ha recentemente curato un volume su una delle figure più controverse e discusse del panorama politico italiano: Palmiro Togliatti.

Il volume è: Togliatti e la democrazia italiana, Editori Riuniti, Roma 2017 e ospita saggi di Francesco M. Biscione, Guido Liguori, Albertina Vittoria, Andrea Ricciardi, Nicola Tranfaglia, Maria Paola Del Rossi, Renzo Martinelli, Giovanni Gozzini, Raffaele D’Agata, Salvatore d’Albergo e dello stesso Höbel. Cercando di superare le multiple "leggenda nere" sul dirigente comunista (ricorrenti quelle di "parassita politico di Gramsci" e artefice della sua mancata liberazione e di "burattino di Stalin" sempre pronto a reprimere ogni forma di dissidenza) il volume cerca di analizzare il contributo dato da Togliatti alla formazione della Repubblica e al successivo sviluppo della vita democratica italiana.

Secondo Giovanni Parella la riflessione togliattiana è di grande attualità oggi: "Togliatti fu tra i padri fondatori della Repubblica sorta dalle ceneri del fascismo e tra i maggiori artefici della stesura della Costituzione italiana, ed è doveroso sottolineare oggi, a distanza di mezzo secolo, che egli pose la difesa delle libertà costituzionali come asse centrale della linea politica del suo partito. L’effetto fu quello di inculcare al partito nella sua interezza l’idea dello sforzo per la difesa delle istituzioni democratiche come baluardo contro ogni tentativo di rigurgito reazionario; pericoli che non mancarono, come dimostrano i tentativi di golpe, le stragi e gli atti terroristici a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta. Il suo grande senso di responsabilità caratterizzò il Pci a partire dalla svolta di Salerno nel 1944, con la quale veniva accantonata la questione monarchica per dare priorità assoluta alla comune lotta contro il nazifascismo insieme a tutti i partiti riuniti nel Comitato di liberazione nazionale. Il leader comunista ebbe ben chiaro da sempre che il fascismo aveva radici profonde nella realtà italiana e non era un fenomeno avulso dalla storia del Paese; da qui la consapevolezza dei rischi di rigurgiti reazionari. «Non crediate che la lotta contro il fascismo sia terminata», affermò nel dopoguerra, riferendosi allo sviluppo della nascente democrazia italiana. La giustezza di questa analisi della società italiana è confermata dalla lotta anticomunista degli anni Quaranta e Cinquanta, dalla trama nera degli anni Sessanta e gli anni Settanta e dalle tante stragi impunite che giungono fino ai giorni nostri, così come l’evidente intreccio fra queste trame e le vicende della guerra fredda. Né peraltro con il crollo dell’Urss queste forze hanno disarmato; anzi in Italia si è avuta la nascita di forze politiche – anche di governo – che hanno rescisso ogni legame con l’antifascismo. Questo architrave rappresentato dalla Costituzione non appartiene più a buona parte delle forze politiche italiane, si assiste anzi sempre più spesso al recupero, in varie forme, dell’esperienza fascista. Ma proprio perché il ventennio non fu una parentesi, non fu un corpo estraneo alla vita del Paese, la riscrittura di queste vicende sul piano storiografico e su quello politico e istituzionale conferma la validità della riflessione togliattiana, che individuava proprio la centralità dell’antifascismo come elemento fondante di un’Italia democratica e progressiva" (pp. 8-9).

Il volume curato da Höbel cerca, dunque, di ricollocare l'azione togliattiana nel complesso quadro della nascita della Repubblica e su come l'esperienza della Resistenza e i "valori nuovi" di cui essa era portatrice, sia confluita nella Costituzione anche grazie al contributo del dirigente comunista. Dirigente che ancora oggi incarna per molti "il totus politicus, cinico, scaltro, manovriero e, ovviamente, “doppio” – […] la figura simbolo da demolire (p. 17). Höbel cura un libro complesso, approfondito ma di non facile accesso per chi non conosca buona parte delle vicende affrontate nei singoli saggi. Richiede tempo, attenzione e voglia di approfondire le vicende storiche del nostro Paese. Tuttavia, necessario e urgente perché: "una scarsissima consapevolezza sul piano del senso comune e della memoria collettiva del Paese" affligge il nostro pensare comune e il nostro passato che è "raramente oggetto di una serrata riflessione sul piano storiografico, mentre si preferisce insistere sui “limiti democratici” del Pci e del suo principale leader" (p. 22).

È bene, quindi, avere sempre dentro di sé qualcosa del distruttore, che abbatta i troppo pesanti ricordi e idoli del passato e non rifugge mai dalle cose nuove, anche se queste, per il modo come si presentano, possono al primo contatto non essere comprensibili e persino respingerlo.

Palmiro Togliatti

Unificare gli italiani onesti attorno ad un obiettivo comune

Il volume curato da Höbel è ricchissimo di stimoli e suggerisce molti percorsi di riflessione. Per quanto mi riguarda – molto probabilmente a causa delle mie attuali occupazioni nel contrasto alla povertà attraverso il lavoro – sono stato tristemente toccato da una riflessione del segretario della CGIL Giuseppe Di Vittorio in occasione della presentazione del Piano del Lavoro. Annunciato dal Segretario generale della Cgil nel settembre 1949 in un’intervista a l’Unità e in un successivo discorso alla Camera. Al centro della proposta sindacale vi era il lancio di un piano economico costruttivo che, attraverso la nazionalizzazione della produzione di energia elettrica, il rilancio delle opere di bonifica e quelle di edilizia popolare, portasse al riassorbimento di almeno 600.000 disoccupati. Scrive Di Vittorio: "La questione che ci poniamo è la seguente: è possibile che un grande popolo civile, laborioso ed ingegnoso come l’italiano, non debba essere capace di mobilitare tutti i suoi scienziati, i suoi tecnici, i suoi operai, i suoi braccianti; di unire in uno sforzo collettivo tutti i ceti sociali interessati e tutti gli aggruppamenti politici amanti del progresso, in vista di utilizzare le possibilità produttive del Paese, per tonificare e sviluppare l’economia, per aumentare il reddito nazionale ed elevare il livello di vita del popolo, assorbendo in lavori utili i disoccupati manuali ed intellettuali? È possibile, insomma, unificare gli italiani onesti attorno ad un obiettivo comune, nazionale di lavoro, di sviluppo economico, di progresso, creando le condizioni d’una effettiva e durevole distensione sociale e politica?" (p. 159).

Di Vittorio credeva che questo "sforzo collettivo" fosse possibile. Io ritengo che sia l'unica prospettiva praticabile per superare le difficoltà in cui ancora oggi ci troviamo. Senza cooperazione e condivisione non sarà mai possibile uscire dalla dinamica della competizione che esclude, dei pochi vincitori che generano milioni di sconfitti, dei privilegiati che godono di tutte le risorse immiserendo gran parte del Pianeta. Se guardo, però, all'attuale condizione italiana, osservo che siamo lontani da una prospettiva di questo tipo e che l'egoismo individualistico sembra essere il pensiero dominante delle classi dirigenti del nostro Paese.

Condivido l'analisi di Fabrizio Barca: "Fino agli anni Ottanta non solo il Pci ma anche i socialisti e la sinistra della Dc hanno svolto un ruolo di rappresentanza popolare. Ma hanno iniziato a perderlo quando il neoliberismo è diventato egemone e li ha inibiti dal contrastare 
la concentrazione di reddito e ricchezza che veniva dalla globalizzazione e dai cambiamenti tecnologici. Persa questa capacità di rappresentanza, le tre aree politiche in questione – Pci, Psi e sinistra Dc – hanno cercato di perpetuarsi unendosi gradualmente in un unico partito, il Pd, senza però ritrovare un ruolo di tutela del lavoro e dei più deboli, anzi assecondando le dinamiche che aumentavano le disuguaglianze. […] Un’intera generazione di sinistra dopo il 1989 si è convinta che i suoi ideali di uguaglianza fossero una sorta di romantico errore di gioventù. Un po’ come se avessimo detto alle generazioni successive: “Noi abbiamo creduto ingenuamente nell’uguaglianza ma poi abbiamo capito che quelle idee erano sbagliate, quindi voi è meglio che ve le togliate subito dalla testa, non pensateci nemmeno a cambiare il mondo” .

Oggi siamo in totale carenza di "democrazia progressiva" e l'idea che una Repubblica "fondata sul lavoro" non possa tollerare così tante persone escluse dalla vita democratica del Paese e relegate alla marginalità e all'assistenzialismo, non mi sembra sia la questione centrale del ragionare pubblico e al primo posto, nei programmi di tutti i partiti politici. Questa "distrazione" genera in me sentimenti di profonda indignazione e sempre più la convinzione che la "civiltà" di un paese si misura dalla capacità di affrontare e risolvere i problemi che lo affliggono.

Oltre il narcisismo

Come sarà possibile rilanciare la partecipazione pubblica e l'interesse per il bene comune se i principali partiti italiani si sono trasformati in organizzazioni verticistiche con a capo dei leader dispotici, permalosi, arroganti e incapaci di sopportare la tensione dialettica tipica di un partito di massa che abbraccia tutte le componenti sociali? La partecipazione pubblica deve – necessariamente – essere ispirata da una classe dirigente dialogante, capace di centrare i problemi e di risolverli. Abbiamo assistito, sotto questo punto di vista, a una profonda immaturità e a un esasperato narcisismo. Togliatti scriveva in riferimento alla via italiana al socialismo che: "un partito il quale sia chiuso in se stesso, burocratizzato, nel quale prevalga la tendenza non a pensare, ma soltanto a comandare o a ob­bedire, non è in grado di stabilire un largo collegamento con le masse". Questo suggerimento ci aiuta a capire che per incentivare la collaborazione e la reciprocità è necessario per primo saper ascoltare e poi, trasformare l'ascolto in azione politica. Non trasformare il proprio narcisismo in "visione del mondo". Ancora Togliatti: "Occorre un parlamento che sia veramente specchio del paese, […] un parlamento che funzioni e occorre un grande movimento popolare che faccia sorgere dal paese quelle esigenze che poi possano essere soddisfatte da un parlamento in cui le forze popolari abbiano ottenuto una rappresentanza abbastanza forte".

Se non riprende dunque, un genuino interesse da parte delle classi dirigenti per la condizione reale e concreta di chi vive nelle zone più disagiate del Paese per " rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese" saremo sempre più condannati ad assistere al teatrino delle promesse mancate, degli individualismi sterili, delle speranze stracciate.

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