Welfare

Tirati per il cambiamento

di Flaviano Zandonai

Il cambiamento è invocato da molti in questo periodo, soprattutto nella sua accezione di radicale discontinuità, anche se poi il rischio è di finire risucchiati negli affanni del breve e di vedere dissolte all’orizzonte le magnifiche sorti e progressive. Nel migliore dei casi si ripiega così su cambiamenti incrementali che ripropongono il restyling di formule ormai logore a furia di collaudarle. Mentre ascoltavo i lavori della convention Cgm – dove si sosteneva che “cooperare cambia”, un paradigma non da nulla – mi chiedevo come si può evitare di rinculare sulle posizioni di partenza (se non antecedenti) dopo aver compiuto uno sforzo elaborativo e di rappresentazione – di sé e del contesto – davvero considerevole. Del resto è questo il destino dell’impresa sociale: sorta come risposta ai fallimenti dello stato e del mercato e alla residualità della società civile, è in qualche modo costretta ad agire – dalle singole prassi agli orientamenti strategici – obiettivi di cambiamento. Ed è quindi relativamente sorprendente notare, almeno per chi bazzica nel settore, che una popolazione di imprese molto dinamica ma ancora limitata nel peso specifico, riesca comunque a produrre elementi di visione così poderosi su questioni cruciali come il welfare, le comunità territoriali, le relazioni tra le persone, ecc. Dov’è quindi il problema? e soprattutto la risposta? Sintetizzando al massimo la babele congressuale credo stia nel condividere queste rappresentazioni con altri. Non sfugge infatti l’osservazione, in primis agli stessi imprenditori sociali, che il miglior test di realtà della propria visione deriva dal confronto con altri punti di vista. Ed inoltre che la sua concreta realizzazione richiede, come condizione strutturale, l’apporto di svariati attori. Fino ad oggi, e comprensibilmente considerata la fase di stato nascente, si è lavorato soprattutto sulla consapevolezza interna e sulla internalizzazione dei processi produttivi (non imitabili e per i quali c’era un interesse relativo). Oggi questo non solo non basta più ma rischia di ingenerare autoreferenzialità. E quella strana, fastidiosa sensazione che “ci stiamo dicendo le stesse cose”. Meglio quindi insistere nel trovare elementi di confronto e di sfida che alimentino il pensiero divergente come sosteneva Sacco alle giornate di Bertinoro. Bene quindi la presenza dell’arte – se a questo serviva – meno le sessioni di lavoro dove forse ci voleva più spazio per la dialettica con altri mondi: imprese e terzo settore ad esempio. Perché saranno (anche) loro a dire se il consorzio di comunità funziona o meno. Con la pubblica amministrazione, invece, temo che il test di realtà non abbia dato fin qui grandissimi riscontri.

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