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Tigray, le voci di chi vive una capitale assediata
Stupri sistematici e diffusi, ripetutamente denunciati. Attacchi ingiustificati a gruppi di civili disarmati, se ne sono registrati più di ottanta in tutto il Tigrai. Utilizzo da parte delle truppe occupanti di bombe al fosforo. Edifici pubblici, scuole, ospedali, così come antichissime moschee o chiese ortodosse bombardate. La tragedia di Macallé
Macallè è assediata, i suoi abitanti guardano al cielo con l’angoscia di chi attende le scie degli aerei e il fuoco dei missili. E non si può scappare, né si può entrare per cercare rifugio dalle campagne che la guerra sta massacrando o per portare aiuti umanitari alle centinaia di migliaia di profughi che vivono accampati fra le strade. Gli eserciti rivali presidiano i contorni della capitale del Tigrai, all’esterno, le truppe dell’esercito federale etiope, sul confine interno, lungo le vie di accesso, i militari del Tdf, il Tigray Defence Force in assetto da guerra. Ora il fronte avanza, ora retrocede. Il Tdf attacca, l’esercito federale etiope bombarda. La città, notizia di questi giorni, è di nuovo sotto il pieno controllo del Tplf, Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai che ne ha riconquistato il controllo pieno. E ora, mentre scriviamo, Addis Abeba ha dichiarato una tregua.
Ma nella percezione di chi vive il conflitto la guerra è lontana dal finire: «Se gli etiopi non sfondano da terra, penetrando a Macallè coi mezzi corazzati, allora ci aggrediranno dal cielo, questo è sicuro. Sono… siamo tutti terrorizzati qui. Pochi giorni fa hanno bombardato il mercato del paese di Togoga, ci sono state decine di morti civili. È stata una avvisaglia». In merito a questo attacco aereo a 25 km da Macallè, le associazioni umanitarie denunciano almeno 64 vittime e 180 feriti. A parlare sono dei testimoni raggiunto via videochiamata grazie all’aiuto delle ong italiane Iscos Emilia Romagna e Iscos Marche da tre anni impegnate per i lavoratori e le lavoratrici del parco industriale tessile di Macallè. Un sito manifatturiero simbolo dello sviluppo boom etiope, ne abbiamo scritto gli scorsi mesi.
«La città è colma di profughi. A Macallè secondo le mie informazioni sono circa 200mila. La situazione a Shire è anche peggiore, sono 500mila là intorno», aggiunge un secondo testimone, «Arrivano dalle zone rurali, la guerra è cresciuta di intensità in tutto il paese. I rifugiati accampano negli edifici abbandonati, nelle scuole che hanno smesso di funzionale, dove capita, disperati. Gli unici aiuti vengono della Croce Rossa internazionale, che però non riesce a fronteggiare la gigantesca emergenza. Si va avanti grazie alla solidarietà tra persone comuni». Mancano vestiti, medicine, di tutto. L’inflazione è alle stelle. L’acqua potabile va e viene, il prezzo di quella in bottiglia è raddoppiato. L’attività manifatturerà tessile è ferma, dava lavoro a circa 10mila persone, l’80% di queste erano donne che ora sono scappate nelle zone rurali o si sono rifugiate tra gli edifici urbani. Era qui che Iscos Emilia Romagna e Marche curavano i loro progetti per il rafforzamento delle lavoratrici. Ora le fabbriche, fuori città, sono presidiate dalle truppe etiopi.
La guerra in Tigrai è scoppiata a novembre, quando l’esercito federale dell’Etiopia ha attaccato tutta la regione del Tigrai, uno degli stati che formano la sua federazione. I militari hanno occupato Macallè e rovesciato il governo “ribelle” del presidente Debretsion Gebremichael e del Tplf, Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai, il maggior partito tigrino. Agli etiopi si sono subito alleate le truppe eritree, in operazioni congiunte dove i due eserciti operano mescolati.
Oggi a Macallè governa un esecutivo ad interim nominato da Addis Abeba, che assiste impotente allo sfacelo. «Ma Debretsion Gebremichael è ancora il nostro leader, è nel cuore della gente, è lui che abbiamo eletto. Non chiamatelo ex leader», sottolinea con orgoglio uno degli uomini intervistati. In Tigrai l’attacco etiope è sentito dalla popolazione come da lungo premeditato, un’operazione voluta dal premier dell’Etiopia federale Abiy Ahmed Ali, 44 anni, in carica dal 2018, premio Nobel nel 2019 per gli accordi di pace con l’Eritrea e che proprio questi giorni potrebbe essere rieletto, si attende lo spoglio delle urne. Abiy, di etnia oromo, è il primo leader dal 1991 che non sia stato direttamente espresso dai tigrini, dalla caduta del colonnello Menghistu Hailé Mariam, meglio conosciuto come il "Negus rosso". Un’elezione la sua che scatenato un forte irrigidimento e numerose proteste in Tigrai, e ha montato il fermento autonomista della regione, protagonista nella guerra civile contro il Negus rosso prima e nella guerra fredda contro la confinante Eritrea, poi.
Il Tigrai negli ultimi trent’anni di fatto ha fornito vastissima parte della nomenclatura e della classe dirigente dell’intero Etiopia, fino almeno all’elezione di Abiy, a cui è seguita un cambiamento profondo degli assetti di potere. Il conflitto esploso si sta rivelando d’un livello di violenza inimmaginabile. Stupri sistematici e diffusi, ripetutamente denunciati. Attacchi ingiustificati a gruppi di civili disarmati, se ne sono registrati più di ottanta in tutto il Tigrai. Utilizzo da parte delle truppe occupanti di bombe al fosforo. Edifici pubblici, scuole, ospedali, così come antichissime moschee o chiese ortodosse bombardate. Raccontano i testimoni intervistai: «Dinnanzi a tali soprusi, la popolazione non è affatto intenzionata ad arrendersi. Tantissimi giovani si stanno arruolando nelle fila del Tigray Defence Force».
La guerra divampa. Spiega a Vita Daniel Mekonnen, avvocato per i diritti umani, consulente indipendente con sede a Ginevra e membro dell'African Studies Centre, Università di Leiden: «Pochi giorni prima del bombardamento del mercato di Togoga, il Tplf insieme al Tdf avevano annunciate la loro più importante controffensiva militare, chiamata “Operazione Ras Alula” (In onore del generale Alula, protagonista della resistenza agli italiani nelle battaglie di Dogali e Adua, ndr). Secondo me, si è trattata della più larga e meglio pianificata offensiva del Tdf dall’inizio del conflitto. In questa occasione le forze armate etiopi hanno subito molto perdite, vedo il bombardamento di Togoga in relazione alla sconfitta patita dagli etiopi. Purtroppo varie fonti confermano vittime civili».
Le condizioni della popolazione sono drammatiche, continua l’osservatore: «A inizio giugno il Word Food Program ha rilevato che il 91% della popolazione del Tigrai (circa 5,2 milioni di persone) ha bisogno di aiuti umanitari d’emergenza. Solo da questo dato si capisce chiaramente quanto sia diffusa la crisi umanitaria. La situazione potrebbe essere peggiore nelle aree sotto il controllo dell’esercito dell’Eritrea, poiché queste forze sono persistentemente accusate di bloccare gli aiuti umanitari». Torna a spiegare uno dei testimoni da Macallè raggiunti da Vita: «La carestia è alle porte. I campi sono incolti, spostarsi lungo le vie di comunicazione del paese è rischiosissimo. Chi si avventura incappa in feroci rastrellamenti ed esecuzioni sul posto. Un mio zio è scomparso così, non abbiamo più notizie. Inizierà presto la stagione delle piogge e se gli agricoltori non potranno sfruttarla per piantare, allora l’anno prossimo ci ritroveremo senza il minimo raccolto».
Nella foto una maniefstazione a Londra per la pace in Tigray
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