Welfare

Tibet.Quell’Italia convertita al dalai lama

Diritti umani. Viaggio tra i fautori della causa tibetana nel nostro paese

di Maurizio Regosa

A dicembre, quando la massima autorità del buddhismo è arrivata a Milano, ha riempito per tre sere un palazzetto da 10mila persone. I suoi siti sono presi d?assalto. E ora, anche se non riempie le piazze, la simpatia per la causa dei monaci contagia tutti

Siamo tutti tibetani»: era lo slogan della manifestazione promossa dal quotidiano Il Riformista e da Radio radicale e svoltasi a Roma qualche giorno fa. Un titolo ben scelto anche perché spiega bene la particolare simpatia che è attecchita nel nostro Paese attorno alla questione tibetana.

Una simpatia molto diffusa, eccezionale, che è forse originata dal sovrapporsi di differenti ragioni. Non vi è dubbio che a colpire l?opinione pubblica sia soprattutto la figura carismatica del Dalai Lama (Nobel per la Pace del 1989): nel corso della sua ultima visita in Italia, a Milano, ha riempito per tre giorni consecutivi un palazzetto da quasi 10mila posti. «Il suo modo di presentarsi come un semplice monaco», spiega Marco Vasta dell?Associazione Italia – Tibet, «e la scelta di portare avanti la lotta con la nonviolenza gandhiana sono certamente componenti importanti, hanno un?indubbia efficacia anche sulle persone che non sono buddiste e che magari sostengono iniziative concrete a favore del popolo tibetano». L?Associazione Italia – Tibet è un?organizzazione indipendente senza scopo di lucro, fondata nel 1988, e che ha come scopo quello di sostenere il lavoro del Dalai Lama.

In un?epoca in cui il conflitto è troppo spesso a portata di mano, i monaci che – spalle e mani nude – subiscono la violenza militare, rappresentano una testimonianza straordinaria. Davide contro Golia. La fiducia nelle proprie ragioni contro le armi e la prepotenza.

Non è proprio un caso se il governo cinese sta – in questi giorni – permettendo la diffusione solo di quelle sequenze televisive che farebbero supporre un atteggiamento aggressivo da parte dei religiosi nei confronti dei cinesi, in particolare commercianti. L?obiettivo è suggerire un?equazione: in questo scontro gli antagonisti lottano ad armi pari, usando la stessa logica e gli stessi strumenti. Il che ovviamente non è. Non foss?altro per la grande sproporzione delle forze. «In Tibet sta avvenendo un genocidio culturale», ha avvertito il Dalai Lama.

A sensibilizzare il Belpaese, c?è un altro elemento simbolico: «Forse all?inizio gli italiani pensavano ai monaci come a persone che vivono in modo separato dalla società», sottolineano dall?Istituto di studi buddisti che ha sede a Milano. «Viceversa in questi mesi hanno potuto constatare che sono esposti in prima persona. Addirittura hanno detto ai tibetani laici: ?Non esponetevi, non rischiate, voi avete famiglia? e questo è un messaggio molto forte».

C?è poi il ruolo della società civile. L?attivismo di numerose associazioni, ad esempio: in questi anni hanno portato avanti un impegno costante, fatto di incontri, dibattiti e di pressing nei confronti delle istituzioni. «La sensibilità nasce anche dall?impegno delle ong che da oltre vent?anni lavorano nel Tibet, che è una delle parti più povere della Cina», sottolinea Sergio Marelli, presidente dell?Associazione delle ong italiane. Tibet, regione martoriata, in cui la sensibilità per le difficili condizioni esistenziali incrocia la preoccupazione per l?ambiente e quella per il mancato rispetto dei diritti civili e umani. E questo avviene da quasi cinquant?anni.

Tentennamenti sul Dalai Lama

«Inoltre», aggiunge Vasta, «c?è anche un effetto indiretto dell?antipatia suscitata dalla Cina. Il gigante che mette in difficoltà le economie occidentali, che è concorrente temibile di questi tempi globalizzati, è anche la nazione che opprime i tibetani. E questo fa scattare una maggiore simpatia nei confronti di questi ultimi. Simpatia manifestata più dalla gente e dalle istituzioni locali che da quelle nazionali. Il governo, ad esempio, che nei confronti del Dalai Lama ha avuto anche recentemente un atteggiamento tentennante. Tutti ricordano le polemiche nel corso dell?ultima visita».Impotenza o quanto meno indecisione della politica da un lato, partecipazione della società civile dall?altro? Questa storia possiamo leggerla anche così. Come ulteriore segnale di uno scollamento fra la classe dirigente, molto attenta alla dimensione economica e alle sue convenienze, e la pubblica opinione, più sensibile ai diritti umani e pronta a schierarsi dalla parte degli oppressi.«Il punto è: fino a quando durerà questa attenzione?», ribatte Aldo Daghetta, che da anni si occupa della questione. «In questo momento la visibilità del Tibet è aumentata grazie alle Olimpiadi. Ma occorre stare attenti. Anche se non vi è dubbio che l?attenzione nei confronti dei diritti umani sia molto trasversale, dobbiamo chiederci se non c?è il rischio di un altro caso Birmania, montato dai media che lo hanno sfruttato per poi lasciarlo finire nell?ombra. Per quanto i giornali e le televisioni cavalcheranno la situazione tibetana?».

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