Famiglia
Ti sposerò, mio infedele
Quando per diventare marito e moglie ti chiedono di cambiare la tua fede
La religione è amore. Ma a volte può anche ostacolarlo, un amore. Però: cosa non si fa per amore? Si fa tutto, per amore. Si scavalcano le montagne, si attraversano i mari, si solcano i cieli. E se tutto questo non bastasse, ci si converte pure alla religione dell?amata. O almeno ci si prova, decisi a tutto. Riuscirci è poi altra cosa. È ciò che è accaduto al romano Francesco che, per impalmare la bella musulmana Sophie, è volato per due volte a Tunisi per farsi rilasciare dal muftì di Cartagine un certificato da ?vero? credente musulmano: la carta ?indispensabile? per sposare Sophie. Eppure da quel luogo lui, pur innamoratissimo, se ne è ritornato a casa (tutte e due le volte) con le pive nel sacco. Bocciato, senza pietà, dall?inesorabile muftì di Cartagine per non aver studiato bene il Corano.
Costretto a convertirsi per amore
Ma andiamo con ordine in questa storia che, ai più, sembrerà il copione di un film su un matrimonio misto scritto da troppo perfida mano (visto che ancora non c?è lieto fine). Per prima cosa, va precisato che, per la shar¦?a islamica, i precetti dettati da Allah che riguardano il comportamento degli uomini, di cui il muftì è ?l?espositore?, nel matrimonio la donna è obbligata a seguire la religione del marito.
Ma se il matrimonio è fra una donna musulmana e un uomo non musulmano, come è il caso di Sophie e Francesco, la shari?a, fonte del diritto sia religioso che statale secondo la mentalità islamica, implicitamente costringe alla conversione il futuro marito: altrimenti gli Stati arabo-musulmani, che con questa loro posizione intendono ?proteggere? la donna, non le rilasciano l?indispensabile nulla osta al matrimonio richiesto agli stranieri in altri Paesi, Italia compresa.
Continuiamo però la storia di Sophie, la bella musulmana, e del romano Francesco, per amore disperatamente aspirante al paradiso di Allah. Quasi sei anni fa Sophie, animatrice in un villaggio turistico della costa tunisina, in una sera in cui i dolci ritornelli delle melodie arabe si rincorrevano fra portici, corridoi, fontane e giardini della moderna struttura ricettiva, conquista il cuore di Francesco. Tempo dopo, Sophie arriva stabilmente a Roma, con un permesso di soggiorno per lavoro. I due sono fermamente decisi a sposarsi. Intenzionati a farlo secondo il rito civile previsto in Italia.
Così, eccoli davanti all?ufficiale del Comune: «Vorremmo sposarci», dice Sophie, con l?euforia simpaticamente impacciata di chi sta per convolare a nozze. «Di che documenti abbiamo bisogno? Io sono cittadina tunisina?». La bonaria smorfia di sufficienza del pubblico funzionario, sornione romano d.o.c., annunciò a Francesco (in verità ancora ignaro di ciò che lo aspettava) che l?operazione non sarebbe stata semplice: «Non c?è problema», replicò ritualmente l?uomo, «ma, per sposarsi in Italia, poiché la signorina è straniera, le occorre il nulla osta del suo Stato per le pubblicazioni. Andate al consolato tunisino qui a Roma, poi tornate, e vi faremo marito e moglie…». Facile, pensò Francesco.
Il giorno dopo, al consolato tunisino, un funzionario, dietro piccoli antipatici occhiali, squadrò Sophie dall?alto in basso. La trattò con freddezza ma, dentro di sé, era più che evidente che ribolliva: «Ci sono tanti uomini nel nostro Paese e questa qua si confonde con uno straniero infedele». Così notificò metallico: «Le rilasceremo il nulla osta al matrimonio solo se ci esibirà il certificato di credente musulmano del suo futuro marito». Ecco dunque il primo percorso indicato dal consolato per guadagnarsi l?agognato ?passaporto da matrimonio?: Francesco avrebbe dovuto imparare a pregare in arabo, cinque volte al giorno, conoscere le sure del Corano (i versetti del testo sacro), rispondere, sempre in arabo, a domande di dottrina islamica (Sophie condisce quest?ultima parte del racconto con un esplicativo ?e-guai-se-sbagli!?). Poi, Francesco sarebbe stato esaminato dal muftì della moschea di Roma. Tuttavia, forse perché il consolato tunisino iniziava a nutrire forti dubbi sulla buona fede dello stesso muftì (Sophie è certa che il religioso rilasciava certificati di fede a quegli italiani nelle stesse condizioni del suo Francesco, solo dietro adeguata ?mazzetta?…), oppure per complicare di più la vita a una giovane donna per niente allineata alla remissività femminile ancora così diffusa nelle società islamiche, presto annunciò nuove direttive: l?esame non si sarebbe più tenuto a Roma ma alla moschea di Cartagine-Tunisia-Africa del Nord. Per il resto, tutto uguale.
Bocciato dal muftì, resta solo l?avvocato
In mezzo a francesi, tedeschi e scandinavi, tutti sulla stessa barca, Francesco, alla moschea di Cartagine, attendeva il suo turno. Pronto ad assumere pure un nuovissimo nome arabo in caso di successo. Magari quello di Muhammad, il Profeta. Aveva già fatto le abluzioni (il rito di purificazione con l?acqua) e non aveva più nessun monile d?oro indosso, cosa quest?ultima proibita quando si entra nella Sala della preghiera dove la grandezza di Dio non può essere offesa dalle superbe esteriorità terrene degli uomini. Sophie lo attendeva in albergo, implorando Allah che tutto fosse andato bene.
E sospirando: aveva dedicato tante energie per trasmettere al suo Francesco i fondamenti dell?Islam! Il muftì, seduto a terra un po? prima del fondo dell?ampia decoratissima sala, vestito con la tipica jebbà e con su in testa la chechìa, era circondato da altri religiosi. Iniziò l?esame, serissimo come tutti gli esami. Francesco lesse il Corano in arabo ma la sua pronuncia cambiava il senso al sacro testo, fu interrogato sul fatto se la donna con le mestruazioni debba rispettare l?islamico digiuno ma la domanda lo spiazzò più del lecito e, purtroppo, la sua memoria accusò forti vuoti anche sul contenuto di alcune sure coraniche. «Impreparato», tuonò seccamente il muftì. Che, dal suo punto di vista, tutti i torti non li aveva. «Ritorni», aggiunse. «Almeno», rimuginò Francesco, «qui c?è l?esame di riparazione». Ma era fortemente deluso.
A Roma la sua vita non continuò troppo facilmente. «Quando rincasava dal lavoro», racconta Sophie, «come altre mie amiche connazionali facevano coi rispettivi fidanzati, lo bombardavo di domande sull?islamismo. Spesso a sorpresa. Ma niente da fare», ricorda la donna con un bel sorriso carico di comprensione. «Era di coccio. Il mio Francesco non sarebbe mai stato un buon musulmano». Del resto, prosegue Sophie alzando la voce, «se mi avessero detto: ?Vuoi sposare un cristiano? Convertiti?, avrei risposto: ?Ma voi siete scemi?. Una richiesta così è semplicemente inaccettabile».
Un altro tentativo fu fatto ma, stesso muftì, stesso risultato negativo. Così, di fronte all?evidenza, e spinti più che mai dal Grande Amore, i due decidono di superare l?ostacolo in altra maniera: mettendo tutto in mano a un avvocato esperto in diritto matrimoniale, incaricato di perorare la loro causa difronte al giudice del tribunale civile di Roma, sezione ?provvedimenti speciali?.
«La norma dell?ordinamento tunisino», sostiene oggi il loro legale, «che, di fatto, impedisce il matrimonio senza la conversione all?Islam di Francesco contrasta con i principi fondamentali dell?articolo 3 della Costituzione italiana, perché discriminatoria sotto il profilo delle credenze religiose. Quindi, poiché il matrimonio di Sophie e Francesco va celebrato in Italia, chiediamo di derogare all?articolo 116 del nostro codice civile, che prevede il nulla osta per i cittadini stranieri».
Tre milioni e sei mesi per sposarsi
A presto, dunque, i fiori d?arancio? Sembrerebbe di sì, i soliti bene informati dicono che per queste cause occorrono dai quattro ai sei mesi di tempo. Circa. Eppure Sophie ha ancora un rimpianto: «Francesco e io potremo sposarci solo perché abbiamo soldi da spendere con gli avvocati. Alla fine, ci vorranno quasi tre milioni di lire. Ma molte mie amiche, che magari vivono in Italia da poco, che lavorano come collaboratrici domestiche non potranno coronare il loro sogno se non fra molto, molto tempo. Conosco già numerosi casi del genere. Intanto continueranno a convivere e questo rappresenta un grosso problema per i figli che già hanno, ovviamente additati dai miei connazionali come ?frutti del peccato?». E aggiunge: «Noi siamo stati davverio doppiamente fortunati perché, in tutta questa vicenda, continuiamo a tenerci per mano, ridendo delle nostre vicissitudini. Invece, in molti casi, la coppia ?scoppia?».
Insomma, alla luce dell?aumento in Italia dei matrimoni ?misti?, anche per sposarsi, e non più solo per divorziare, d?ora in avanti potrebbe essere necessario ricorrere all?avvocato…
L’opinione
E per i figli sono guai
Un cosiddetto ?matrimonio misto? per l’Islam è tollerato e in teoria non pone nessun problema. Ma ciò vale quando è l?uomo a sposare che so: una cristiana, una ebrea, una indù eccetera. Nell?Islam è l?uomo, infatti, che ?veicola? l?educazione religiosa dei figli. Non importa che la donna non musulmana si converta all?Islam, può rimanere fedele al suo credo: ma per i figli è diverso. Per la cultura musulmana è ovvio che i figli dovranno ricevere educazione musulmana, per crescere e diventare buoni musulmani. Se una cristiana che ha sposato un musulmano vive col marito in Occidente, per lei non ci saranno problemi sempre che i coniugi si amino. Se però la cristiana dovrà vivere col marito in un paese islamico, non sarà facile per lei. Ancora ancora in Tunisia, in Algeria, per non parlare del multiconfessionale Libano; riuscirà a vivere decentemente, senza soverchi problemi. Ma se dovrà vivere per esempio in Arabia Saudita, la storia la costringerà a una semi clausura. Io ho esperienza diretta di due matrimoni felici: in entrambi i casi i padri hanno lasciato, d?accordo con la moglie, che siano i figli, un giorno, a decidere quale religione scegliere. Ma va detto che questi due miei amici, uno musulmano sunnita, l?altro musulmano sciita vivono nella diaspora: a Parigi e a Roma. La loro elasticità non dipende soltanto da una innata liberalità, ma altresì dal problema dell?integrazione. Il dialogo interreligioso (penso alla preghiera comune fra uomini di religioni diverse riproposta ogni anno dalla Comunità di Sant?Egidio nel solco della prima, in Assisi, voluta da papa Giovanni Paolo II, undici anni fa) aiuta a capirsi, e aiuta le forze della pace.
di Igor Man, inviato de La Stampa e grande conoscitore dei Paesi arabi
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