Economia

“Ti piace vincere facile?”: un altro argomento per il Salone del Risparmio

di Marcello Esposito

Non è che ho la fissa del risparmio gestito, ma il Salone del Risparmio è un’occasione ghiotta per discutere di quello che interessa maggiormente il sottoscritto e i lettori di questo blog, ovvero la sostenibilità sociale dell’industria dell’asset management in Italia.

L’ho già detto e ripetuto parecchie volte, ma quando il costo medio di un fondo comune commercializzato in Italia raggiunge il massimo storico (1,54% medio! Vedi qui nostro commento ai dati scioccanti pubblicati da Plus la scorsa settimana), la puzza di “predatory pricing” è fortissima e tutti quelli che ci tengono al futuro dell’industria del risparmio gestito devono avere il coraggio di alzare le tapparelle, aprire le finestre e fare entrare luce e aria fresca. Perché, come in tutte le industrie, il futuro dipende dalla sostenibilità degli utili e dal valore che si crea per i clienti, non da quanto si riesce a ramazzare oggi.

Abbiamo già commentato (vedi qui) la sorpresa dei costi di sottoscrizione pagati dal fondo e non dal sottoscrittore. Oggi, commentiamo un’altra tipologia di costi che ha contribuito al record di utili del 2013, le commissioni di “performance”. Per capire la struttura dei costi espliciti di un fondo rimando sempre al post precedente (vedi qui).

Premetto subito che io sono un fan delle commissioni di performance, perché il gestore “attivo” le preleva solo quando ha svolto la sua funzione economica, che è appunto quella di battere il benchmark. A dirla tutta, secondo me, le commissioni di performance dovrebbero essere la forma primaria di remunerazione del gestore “attivo”, con le commissioni di gestione ridotte al minimo indispensabile per sostenere i costi di struttura. Nel mio mondo ideale le commissioni di gestione di un fondo “attivo” dovrebbero essere in linea con quelle di ETF, fondi passivi, … mentre le commissioni di performance verrebbero versate al raggiungimento dell’obiettivo per cui il gestore “attivo” si propone di gestire il mio denaro, che è appunto quello di battere il “mercato” e fare meglio di un ETF.

Detto questo, pur sapendo che il gap tra realtà e mondo ideale è ancora molto ampio, non ci vedo nulla di male se, ad esempio, il gestore dell’azionario “US Equity” percepisce una commissione di overperformance qualora riesca a far meglio dell’S&P500. Ovviamente, la performance deve essere calcolata su un orizzonte sufficientemente lungo (almeno un anno), l’indice deve tener conto dei dividendi, etc etc. In poche parole, il benchmark deve essere rappresentativo della politica di investimento e deve essere sfidante.

E’ un po’ come negli sport, dove ci sono le categorie di peso, le categorie di età, …. Se gareggio nei 100 metri e sono un adulto, non devo scegliermi come avversario un bambino. Ma non basta ancora. Deve esserci coincidenza di specialità sportiva. Se corro i 100 metri, i miei avversari devono essere degli sprinter come me, non dei maratoneti.

Traslando questi concetti nella finanza, per misurare la mia performance come gestore non devo scegliermi un riferimento decorrelato, in modo da randomizzare la mia performance relativa e percepire così le commissioni di overperformance un anno si e l’altro no. Eh sì, perché, mi ero dimenticato di dire, che le commissioni di overperformance in Italia e in Europa sono asimmetriche: la sgr le percepisce se vince, ma non le restituisce al cliente se poi in futuro perde. Non è così negli USA, dove invece deve esserci simmetria: si incassano quando si vince, ma si restituiscono quando si perde.

Ebbene, sempre il famigerato fondo che ha ispirato il mio post sulle commissioni di sottoscrizione ha una struttura di commissioni di performance “interessante”. Facciamo un po’ di conti, perché solo con in numeri si capisce il significato di “predatory pricing”.

Si tratta di un fondo a finestra con un orizzonte temporale predefinito di 5 anni. Avendo un periodo di collocamento, distribuendo cedole ed avendo ”scadenza” prefissata, il portafoglio al momento del collocamento è verosimilmente costituito di obbligazioni con una duration media leggermente inferiore a 5 anni.

Per un prodotto simile un benchmark sfidante potrebbe essere costituito da un BTP con vita residua 5 anni al momento del collocamento. D’altro canto, se un cliente va in banca e chiede un consiglio per investire a 5 anni il suo denaro, la prima proposta che il consulente finanziario dovrebbe presentargli è quella di un titolo di Stato. Se il cliente vuole avere qualcosa di più, allora si propone ad esempio un fondo “attivo” che in linea teorica dovrebbe appunto consegnargli un rendimento superiore grazie alle capacità del gestore.

Quale è il benchmark che invece ho trovato su questo fondo? Nessuno. Però, la SGR per non rinunciare alle commissioni di performance indica un parametro, il Barclays Euro TBills index + 0,9%, che, se battuto, genera per le SGR una commissione ulteriore legata all’extra-rendimento. L’indice rappresenta un paniere di BOT europei, il cui rendimento implicito non è diffuso sul sito di Barclays. Siccome questo indice sugli ultimi 12 mesi ha reso lo 0,3% (ed è plausibile ritenere che rimanga su questi livelli per ancora molto tempo), è plausibile assumere che la performance annua del parametro di riferimento sia l’1,2%=0,3%+0,9%.

Da tutto questo si deriva che la SGR si considera “brava” se riesce a consegnare al risparmiatore un rendimento superiore all’1,2% medio annuo nei prossimi 5 anni. Se riuscirà a fare di meglio, si prenderà il 20% della differenza tra il rendimento del fondo e l’1,2%.   “Gulp!” esclamerebbe Zio Paperone.

Immaginiamo che il gestore del fondo che mi è stato offerto la scorsa estate avesse investito il patrimonio del fondo nel BTP 3,5% con scadenza 1/6/2018, quindi con una scadenza simile a quella del fondo (30/6/2018). A fine giugno del 2013 quel BTP rendeva il 3,2% lordo. Un vero benchmark avrebbe dovuto essere questo BTP, non la media dei rendimenti del T-Bills europei +0,9%, che probabilmente veleggiava attorno all’1,2%.

Applichiamo le commissioni correnti di gestione (comprensive delle “nuove” commissioni di sottoscrizione) pari a 1,52% e il rendimento viene ridotto a 1,68%=3,2%-1,52%. Senza considerare i costi di banca depositaria, le commissioni di negoziazione e altre spese a carico del fondo, quasi il 50% del rendimento del BTP se ne va in commissioni correnti annue.

A questo punto, dobbiamo ancora prelevare le commissioni di performance. Immaginiamo che la SGR distribuisca il minimo previsto (30%) dei proventi da investimento, ne deriva che il valore quota del fondo aumenta del 1,17%=70%*1,68%.

Magicamente …. il rendimento teorico (ancora al lordo delle tasse) che ho calcolato è 1,17% …. e il parametro di riferimento per prelevare le commissioni di overperformance è 1,2% ! Quindi, se non ci fossero movimenti della curva dei rendimenti, mediamente la SGR non dovrebbe prelevare commissioni di performance e come cliente dovrei portare a casa un magro 1,2% al posto del 3,2% del BTP.

Ma il problema è che le cose non stanno proprio così per il nostro povero cliente. Se la sfortuna vuole che i tassi si abbassino nei primi mesi di vita del prodotto, il nostro fondo paga anche commissioni di overperformance perché il valore quota beneficia della rivalutazione del portafoglio titoli mentre il benchmark non cambia perché è legato ai tassi a brevissimo (effetto “decorrelazione”).

E, infatti, sfortuna (per il cliente) e fortuna (per la SGR) vuole che da giugno 2013 a oggi  il rendimento del BTP è sceso dal 3,2% al 1,61%, praticamente dimezzandosi in circa 9 mesi, e contestualmente il prezzo del BTP è passato da 100 agli attuali 106,52, quindi ne deriva un guadagno in c/capitale del 6,5%. Il fondo essendo valutato a mark-to-market non può fare nulla per contrastare questo aumento di valore e quindi si applica la commissione di overperformance e la SGR preleverà dal fondo un altro 1,3%!

Visto che con il tempo si registra il fenomeno del pull-to-parity, cioè il prezzo del BTP ritorna a 100 man mano che ci si avvicina alla scadenza, questo guadagno verrà riassorbito negli anni a venire sottoforma di perdite in c/capitale. Se fossimo negli USA, con le commissioni simmetriche, il cliente dovrebbe quindi recuperare l’1,36% nei 4 anni che mancano alla scadenza. Purtroppo, siamo in Italia e le commissioni sono asimmetriche, cioè la SGR non le restituirà al cliente nei prossimi 4 anni.

Cosa significa? Che le commissioni annue di gestione implicite per il cliente saliranno di 0,27%=1,36%/5, salendo da un già elevatissimo 1,52% ad un improponibile 1,80%! Questo una volta era il livello commissionale associato alle gestioni azionarie specializzate sui paesi emergenti. E qui stiamo invece parlando di una gestione obbligazionaria.

Se a 1,8% di costi di gestione aggiungiamo altri 0,17%=12,5%*1,34 di witholding tax (sono quasi tutti bond governativi area euro, come si evince dalla relazione semestrale) e 0,2% di imposta di bollo, al cliente degli originali 3,2% del BTP rimangono in mano solo uno 1,03% di rendimento netto. E fermiamoci qui, sperando che il gestore riesca almeno a recuperare le spese della depositaria e gli altri costi addebitati al fondo.

Traduciamo questi numeri in euro. Il prodotto in questione (non la serie di fondi ma solo il fondo che ho analizzato) ha raccolto 900 milioni di euro.

Il reddito che questo denaro poteva produrre se investito in BTP 5y a fine giugno 2013 era pari a circa 29 mln di euro all’anno, fino al 2018. In questo caso, si sarebbero dovuti pagare al fisco 3,63 mln di imposta sostitutiva e 1,8 mln di bollo. La banca avrebbe probabilmente guadagnato un 2 mln di euro di commissioni di intermediazione. Ai clienti in aggregato rimangono 21,6 mln, cioè il 75% del reddito lordo prodotto dal BTP.

Interponendo il fondo da me analizzato, la SGR (che poi retrocede alla banca buona parte) incassa 16,2 milioni e il fisco incassa 1,5 mln di imposta sostitutiva e sempre 1,8 mln di bollo.   Ai clienti in aggregato rimangono circa 9 mln di euro, cioè il 31% del reddito lordo prodotto dal BTP.

Come abbiamo scritto qui, Ministro Poletti salvi per favore l’investitore inconsapevole!

 

 

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.