Cultura

Testori torna a parlarci nelle Conversazioni

Il libro di Luca Doninelli, “Conversazioni con Testori”, nella drammaturgia di Giulia Asselta, è andato in scena a Milano e il prossimo 21 giugno sarà riproposto a Novate Milanese. Nell'interpretazione magistrale di Andrea Soffiantini, le parole e persino lo sguardo dell'autore milanese prendono carne e raggiungono lo spettatore commuovendolo

di Francesca Caminada

Ci sono degli spettacoli che segnano. Attimi e momenti che si vorrebbe conservare e tenere nella propria memoria, per tornarvi ogni volta che si desidera, come quando si tiene un reperto da una vacanza o una lettera importante. Parole che si vorrebbe fossero scolpite, incise, poiché esistono parole utili, belle, che fanno fiorire, che danno vita, corpo, realtà, e invece parole vane, vuote, eteree, adatte solo alla speculazione e all’astrazione.

Quelle di Testori nella sua conversazione con Doninelli non sono parole inutili, tutt’altro, ma perché sono riuscite ad arrivare fino a noi e ad esserci consegnate? Perché c’è stato un uomo, un ragazzo allora (ossia Luca Doninelli per l’appunto) che da quello scrittore si è fatto interrogare, ha seguito quell’incontro, e in un rapporto lo scrittore milanese è riuscito ad essere davvero un testimone del maestro. Lo spettacolo andato in scena all’Oscar e che sarà riproposto a Casa Testori (Largo Angelo Testori, 13, – Novate Milanese) il prossimo 21 giugno, rappresenta un incontro. Sembra quasi che la capacità di relazionarsi al pubblico, di parlare agli spettatori, sia possibile perché il libro stesso nasce da una relazione, da un rapporto, da un’amicizia. Merito anche della bravura magistrale dell’attore, Andrea Soffiantini (in cover), che mette in scena Testori in un lungo monologo, attorniato da tazzine rotte e integre, da mobili di una casa da mettere in ordine, che – forse – rappresentano quella casa cercata e rinnegata di Testori per tutta la sua vita. L’attore riesce a modulare la voce fino ad assomigliargli profondamente, ad entrare nella sua pelle e, come le parole, la voce che Soffiantini ci dà è segnata anch’essa da un rapporto con il personaggio messo in scena, del quale anche l’attore è stato discepolo.

Anche per le circostanze di genesi particolari, tutto nello spettacolo diventa carne, tutto diventa realtà, questa misteriosa realtà che Testori ci invita ad amare e che è così difficile per noi da decriptare. Lo sprone energico ad amare la realtà rimane, per il pubblico, attraversato da un profondo interrogativo su cosa sia la realtà che dobbiamo amare e come non rifugiarci nelle astrazioni. Ma se la domanda totale ci resta segreta, guardando lo spettacolo non possiamo non arrenderci a delle evidenze, ad esempio che la bellezza esiste, e ci viene mostrata tramite lo sguardo di Testori. Grazie a lui osserviamo le tele sacre di Forlì o i volti stravolti di Bacon, o ascoltiamo le parole dei Promessi Sposi o dell’Amleto. Quell’Amleto che esce frastagliato, sbrendicciato (non so se fosse questa la parola) che nasce dalla necessità contingente di Shakespeare e che da lì tocca le vette, secondo lo scrittore, le più alte raggiunte nel mondo letterario occidentale.

Amleto è un caso paradigmatico per illustrare il discorso testoriano nel testo di Doninelli perché è in questo connubio inscindibile tra alto e basso, tra terra e cielo, in un’armonia stonata e così onesta nei contrasti che scopriamo la grandezza e la verità del discorso di Testori. Siamo condotti, infatti, alla sua conoscenza tramite un percorso sulle ferrovie di trenord, da Milano, a Novate, Bollate, Lasnigo, Varese… la geografia lombarda assume, allo stesso tempo, una descrizione realistica e poetica. Testori riesce a dare alla carnalità una vena di mistero, di poesia, che si solleva dalla banale contingenza, e all’arte e alla letteratura una decisa concretezza.

Il fango non sporca, il cielo non redime dalle bassezze: tutto è straordinariamente e potente umano e in questo umano risuona una domanda di senso, di bellezza, di amore, di legame e di carità. Carità è una parola difficile, che appare in uno snodo fondamentale dello spettacolo. È una parola che fa paura, che non pronunciamo mai, di cui non sappiamo neanche il significato. Io non so il significato di carità, amo sempre cercando qualcosa in cambio; il mio amore non è mai vero amore, non è mai vera carità, perché sporcato dall’egoismo. Eppure, ad esempio, Testori, nel raccontarci come è cambiata la relazione con il suo giovane amato dopo la morte del padre di lui, riesce a dire questa parola, riesce a raccontarcela, a farcela vivere e assaporare. Non si ha paura di toccare la grandezza, di parlare delle esperienze più radicali e vere della vita: l’amore che nasce dalla disperazione e la disperazione che nasce dall’amore.

Moti universali e forse elementari, come la parola che ha sempre cercato Testori, partita dal balbettio, dalle sillabe, dall’inciampare e dall’incespicare della lingua. Della lingua fisica; difatti, la parola è incarnata, e è parola grazie ad un corpo. Per questo motivo – forse – l’espressione più testoriana la troviamo nel teatro, dove la parola si fa carne, realtà, voce, movimento, suono. La parola è questa, non è parte di un sistema per comunicare ma è molto di più, è forse l’essenza dell’umano, la sua espressione. È una parola poi che deve essere radicale, deve lasciare un segno, impastare quello che tocca. Come hanno fatto le parole di Longhi sui quadri di Caravaggio. Secondo Testori, se si osserva una tela del Caravaggio non si possono non vedere le parole del Longhi incrostate. Bisogna lasciare un segno, come quando si fa l’amore (parafrasandolo ancora) si lascia un segno, fosse anche solo una bava di lumaca. E le parole che sentiamo a teatro, in effetti, fanno venir voglia di fare l’amore, non in un banale spirito vitalistico, ma fare l’amore come l’atto più umano che esista, dandosi completamente all’altro e volendo completamente l’altro.

Ecco, forse ora mi è più chiaro, anche se solo di una gradazione di luce, cosa vuol dire amare la realtà, amarla nella sua radicalità, nella sua fisicità, nella sua interezza, nel suo rapporto con l’altro. Senza poter tralasciare quel mistero che si sperimenta, che ci porta a richiederci un senso, che Testori cercava a Milano, nei tram, nei bar come nelle pagine del Vangelo, in un’unità spaventosa, inimmaginabile. Un’unità che non può non commuoverci e muoverci, perché le parole di Testori e di Doninelli muovono, commuovono e riescono davvero – come desiderava lo scrittore protagonista dello spettacolo – a lasciare un segno.

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