Non profit

Testimonial addio. Gli sportivi adesso parlano coi fatti

Ruggero Magnoni, presidente della Fondazione Laureus

di Stefano Arduini

«Con la fondazione ogni singolo calciatore decide di mettersi
a disposizione in favore dei più deboli: uno strumento molto più efficace delle vecchie “testimonianze”» Grande finanziere con una lunga esperienza internazionale, Ruggero Magnoni con la sua Fondazione Laureus è da tempo il trait d’union fra lo sport e il mondo della solidarietà.
Vita: Nell’elenco dei Friends & Ambassadors di Laureus però non ci sono calciatori. Perché questa scelta?
Ruggero Magnoni: Molti sportivi sono disponibili ad aiutare il prossimo. Molti desiderano farlo silenziosamente e costantemente, altri invece preferiscono sostenere più cause e non legarsi ad una unica organizzazione. Laureus è vicina e presente in tutti gli sport, e credo che sia solo un caso che non ci sono ancora calciatori tra i nostri F&A. Anche se è chiaro che ci fa piacere evidenziare anche il ruolo formativo ed educativo che anche altre discipline svolgono per la crescita dei ragazzi.
Vita: Perché i calciatori preferiscono mettere in piedi fondazioni piuttosto che associazioni?
Magnoni: La fondazione è un negozio giuridico unilaterale non recettizio. È il singolo calciatore che decide di mettere a disposizione del pubblico la propria immagine, valori e disponibilità economica a favore dei più deboli mentre le associazioni nascono dalla condivisione di uno stesso progetto con più persone. Anche il patrimonio inoltre ha un peso. Nella fondazione il patrimonio è fondamentale per il raggiungimento della mission mentre peso minore ha nelle associazioni dove invece prevale l’elemento associativo. E non ultimo il riconoscimento, obbligatorio per le fondazioni e non per le associazioni, che comporta i controlli della pubblica amministrazione.
Vita: Quanto vale per un ente che si occupa di sociale potersi avvalere del “marchio” di un calciatore?
Magnoni: Mi permetta: è una terminologia che non mi piace. Qui non parliamo di marchi e marketing, ma di programmi, cultura, aree di disagio, interventi progettuali a lungo termine. Per questo un lavoro culturale profondo e serio è più importante di qualsiasi testimonial. Mi spiego: che senso ha avere Kakà o Zidane o Cristiano Ronaldo come testimonial, se poi i giornalisti che li intervistano “tagliano” dai loro servizi le domande sulle iniziative che promuovono e mandano in onda solo quelle relative alla partita del giorno dopo? È un problema culturale, appunto. E le fondazioni che lavorano bene parlano attraverso fatti e progetti concreti, rispetto ai quali il testimonial è solo la ciliegina, non la torta.


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