Salute

Testamento biologico, una battaglia senza appigli

Il caso Lettera aperta di Mario Melazzini, medico e malato di Sla

di Redazione

Quanto è accaduto di recente ad una mia compagna di malattia, la signora Vincenza Santoro Galano, che a Modena è stata accompagnata alla fine naturale della sua vita, mi suggerisce due considerazioni. La prima come medico, la seconda come malato di Sclerosi laterale amiotrofica.
Da medico, ritengo che in ciò che è accaduto non solo non vi sia riscontro alcuno del primo caso di «testamento biologico», ma al contrario penso che sia la manifestazione lampante di quanto il testamento biologico non serva, poiché gli strumenti a disposizione del medico per tutelare la volontà del malato sono già sanciti e dalla Costituzione Italiana e dal Codice deontologico della professione medica. Non vi devono essere percorsi terapeutici che non siano condivisi con i pazienti e le loro famiglie, che non siano tracciati in un costante confronto tra medico e malato, confronto fatto di informazione precisa, supporto psicologico, presa in cura, affinché ogni scelta da compiersi sia ragionata, voluta, condivisa. Per questo ritengo che la tracheotomia e la ventilazione invasiva non siano strumenti di accanimento terapeutico. Lo sarebbero se la scienza imponesse il proprio intervento sul malato senza la sua accettazione, ma non possono esserlo se rispondono al suo preciso volere, se sono gli atti di un percorso pianificato, disposti secondo le decisioni del paziente, frutto di un incontro precoce e costante con il suo medico.
Il dolore e la sofferenza (fisica, psicologica) in quanto tali non sono né buoni né desiderabili, ma non per questo sono senza significato: ed è qui che l’impegno della medicina e della scienza deve concretamente intervenire per eliminare o alleviare il dolore delle persone malate o con disabilità, e per migliorare la loro qualità di vita, evitando ogni forma di accanimento terapeutico. Questo è un compito prezioso che conferma il senso della nostra professione medica, non esaurito dall’eliminazione del danno biologico. La medicina, i servizi socio-sanitari e, più in generale, la società forniscono quotidianamente delle risposte ai differenti problemi posti dal dolore e dalla sofferenza: risposte che vanno e devono essere implementate e potenziate e che sono l’esplicita negazione dell’eutanasia, del suicidio assistito e di ogni forma di abbandono terapeutico.
E ancor più da malato affermo quanto sia fondamentale quest’opera di presa in carico che il medico deve compiere nei confronti della persona fragile che a lui si affida, quanto sia indispensabile che vi sia corretta e piena informazione dalla diagnosi alla cura, in modo che ogni passaggio sia preparato, conosciuto, disposto. L’impostazione di una corretta relazione tra medico e paziente, caratterizzata da delicatezza ed empatia, e la condivisione con i famigliari del malato di un’informazione tempestiva, esauriente e continua (sulla malattia, sulle problematiche, sui diritti del malato) favoriscono la consapevolezza ed il cosiddetto “decision making” nelle fasi più avanzate della malattia. Quando il paziente avverte il bisogno di prendere coscienza e di prepararsi alle complicanze che essa comporta.
Nel caso della signora Vincenza, dunque, non c’è stata interruzione, ma compimento, compimento di una libera scelta e di un dignitoso accompagnamento alla fine naturale della malattia.
È per questo che ritengo che ciò che è accaduto non rappresenti una novità, un caso emblematico di una legge che ora si rende necessaria.

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