Non solo garzone per conto dello Stato distribuendo la spesa a domicilio durante la pandemia come emerge dal decreto “Cura Italia” citato dalla puntina di Riccardo Bonacina. Volendo anche giardiniere per conto del mercato, come dichiarava con nonchalance il responsabile di un fondo d’investimento impegnato in un progetto di rigenerazione urbana tutto trainato da conoscenza e innovazione tecnologica a cui mancava però qualcuno che sfalciasse l’erba intorno alle sedi di laboratori e incubatori. Sarebbe questo il ruolo del terzo settore: svolgere attività, se proprio non servili, certamente subordinate rispetto al “core business” altrui. Un segmento della società che nasce e si sviluppa intorno ai limiti, se non proprio ai fallimenti, dello Stato e del mercato che mantengono lo scettro del potere lasciando alla società civile il ruolo di subfornitore.
Niente di nuovo verrebbe da dire. Ma è proprio questo il problema, considerando che sono ormai diversi decenni che il terzo settore sembra operare attraverso questa modalità. Tanto da pensare che in fondo questo atteggiamento vada bene non solo ai soggetti dominanti che evidentemente hanno appreso poco, o non hanno voluto apprendere, nonostante si siano riempiti la bocca di parole come partnership e coprogettazione. Forse potrebbe andar bene addirittura al diretto interessato, a un terzo settore che quando la partita si fa dura “continua a fare riscaldamento ma non si toglie mai la pettorina per entrare in campo” come mi ricordava qualche tempo fa un importante dirigente.
Ma è davvero così? E in particolare cosa stiamo osservando nel bel mezzo di uno shock dove il terzo settore è colpito direttamente e non può vantare, come invece si affermava in precedenti crisi come quella del 2008, un andamento anticiclico in grado addirittura di rilanciarlo? La visuale, per ora, non è chiarissima. Merito, si fa per dire, di una pluralità di fattori. Ad iniziare proprio da chi dovrebbe dipanare l’orizzonte: una pluralità di iniziative di mappatura e analisi di quel che sta accadendo ad associazioni, fondazioni, imprese sociali che faticano ad andare oltre lo storytelling della resilienza. Utile certo, ma più a rinserrare le fila in una fase complicata piuttosto che inquadrare qualche squarcio su futuri possibili. E sembrano limitate anche quelle iniziative che, rubando l’espressione a Stefano Granata, fanno più “estetica del processo”, ad esempio sulle forniture dei dispositivi di protezione personale, perdendo un po’ di vista il valore della soluzione di cui abbiamo, in questa fase, un disperato bisogno. E, ultimo ma tutt’altro che ultimo, non aiuta certo l’assenza della politica a cui per certi versi eravamo abituati, ma che ora di fronte a un evento epocale ne soffriamo gli effetti a livello di programmazione e gestione trincerati come siamo dietro il comando di “stare tutti a casa” addolcito dall'auspicio, sempre più vago e quindi inefficace, del "tornare a rincontrarsi".
Però, nonostante questo (e altro), qualcosa si incomincia a intravedere. Cominciando dal fondo ovvero dalla politica. Il piano sanitario presentato dal ministro Speranza (nomen omen ci auguriamo) è forse il primo documento di policy dopo una serie di decreti che pur giustificati dall’urgenza hanno indebolito, almeno nel metodo, non solo il confronto democratico, ma la stessa azione di governo evidenziando, ad esempio, le fratture nella sussidiarietà verticale tra i livelli nazionale, regionale e locale. Forse intorno a questo e ad altri piani si potrà anche riarticolare la governance dei corpi intermedi guardando non solo a interessi puntuali come i codici ateco delle attività da considerare essenziali, ma contribuisca a un esercizio autentico – cioè allargato – della funzione pubblica.
Concretamente su due dei cinque punti proposti nel documento della politica principe – quella sanitaria – c’è aspettativa rispetto al ruolo del terzo settore: il distanziamento sociale e la domiciliarità. Si tratta infatti di ambiti dove questi soggetti possono contribuire sia a livello di riprogettazione degli spazi, sia di ridisegno dei servizi, cominciando magari dagli spazi di socialità e dai servizi domiciliari propri. Un sistema articolato di aggregazione e offerta che ha contribuito alla costruzione di sistemi di protezione sociale decentrati e connessi, ma che la pandemia ha messo in crisi e che richiedono quindi di essere riprogettati, ben sapendo che senza il loro ripristino su nuove basi non ci sarà nessuna vera “fase due” (e oltre). Questo lavoro di ristrutturazione dei luoghi e dei servizi a domicilio non potrà essere solo di tipo gestionale e neanche lasciato al dialogo nei “tavoli” istituzionali, ma richiederà al terzo settore di rigenerare un altro suo ruolo ovvero quello che Negri e Hardt definirono qualche anno fa di “tribuno della plebe”. Un intermediario capace di introdurre cambiamenti nei sistemi di welfare che sappiano contemperare esigenze di salute e tenuta della coesione sociale evitando di innescare un trade-off tra queste dimensioni che sarebbe all'origine di un grave rischio sociale. A queste condizioni, tutto sommato, un terzo settore ora dotato di un profilo normativo potrebbe riesercitarsi nel suo ruolo, anche facendo il garzone o il giardiniere.
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