Provate a fare senza

Terzo settore? «Non sia mera surroga o perderà la sua capacità di lavorare negli interstizi»

La sociologa Chiara Saraceno interviene sulla provocazione lanciata da VITA di marzo. «Temo che assumendosi semplicemente la supplenza», spiega, «associazioni e imprese sociali perdano la dimensione ideale che le connota, dell'innovazione che le caratterizza e del lavoro che io chiamo di cucitura». Se ne parlerà oggi a Torino

di Giampaolo Cerri

Chiara Saraceno (Milano, 1941), sociologa e filosofa, è una delle voci più interessanti del discorso pubblico odierno, particolarmente attenta ai temi sociali, soprattutto alle nuove povertà, per cui è stata chiamata da diversi governi della Repubblica a presiedere commissioni dedicate. Già docente degli atenei di Trento e Torino, è attualmente honorary fellow presso il Collegio Carlo Alberto del capoluogo piemontese.

Professoressa Saraceno, VITA magazine di marzo sta un po’ sul filo della provocazione titolando Provate a fare senza, nel senso di provate a fare a meno del Terzo settore e della risposta ai temi sociali che mette in campo. Lei che cosa ne pensa?

Che questa domanda ci induce anche a riflettere su qual è il ruolo effettivo del Terzo settore.

E a che riflessione si approda?

Non se ne può fare a meno, chiedo, perché surroga ciò che lo Stato dovrebbe fare e non fa? Oppure, sarebbe meglio dire, che “non se ne può fare a meno” perché fa ciò che lo Stato dovrebbe fare?

Risponde ai bisogni…

Certo, quindi provvede a una sanità che manca, provvede a servizi che mancano, provvede anche a un sostegno ai poveri che dovrebbe esserci. Che è un po’ quello che in parte avviene, intendiamoci. Oppure…

Oppure?

…oppure “non se ne può fare a meno” perché comunque, anche il welfare statale più generoso non può affrontare tutte le questioni, soprattutto non può affrontare alcune dimensioni relazionali, di lavoro sull’interstizio, mi verrebbe dire, della società e delle relazioni? E poi perché non potrebbe fare a meno anche della capacità di ideazione della società civile e, prima ancora, di riflessione anche sui cambiamenti, sui bisogni che ci sono? Io, di fronte alla domanda, “se ne può fare a meno?”, mi preoccupo, nel senso che non vorrei che il Terzo settore assumesse solo un compito di surroga.

Ridotto a un ruolo ancillare insomma…

Ancillare o anche perdendo una dimensione ideale, invece, che lo connota, cioè di innovazione, di lavoro, appunto, quello che io chiamo di cucitura, di animazione, di valorizzazione. Insomma, non solo c’è il rischio della dimensione ancillare, ma quello di assumere una funzione strumentale, cioè il pubblico paga e io eseguo. Quello che succede moltissimo con il contracting out (le gare di appalto al massimo ribasso, ndr).

Un Terzo settore esecutivo, per così dire, che esegue e anche a costi migliori.

Esegue anche magari in modo innovativo, ma che, comunque sia, che in parte è stato anche la vicenda ultima, storica, di molte cose del Terzo settore. Concorre agli appalti ma se il ruolo del non profit oscilla soltanto tra l’essere sostitutivo e l’essere strumentale, secondo me, ci perde un po’…

Le storie del magazine raccontano l’intervento sociale in varie aree, un po’ a descrivere l’impatto di questo mondo “per differenza”. Fra loro c’è anche quella di una mutua sanitaria, la Cesare Pozzo, di cui anche lei è socia. Una delle mutue che, negli ultimi anni, stanno cercano un po’ anche di essere risposta a questo disastro della sanità che vediamo.

Meno male, mi verrebbe da dire. E sto parlando delle mutue alla Cesare Pozzo, non delle assicurazioni sanitarie private. Sono socia da tantissimi anni e non mi hanno “buttato fuori” quando ho compiuto 70 anni, né l’hanno fatto quando mio marito (il politologo Gian Enrico Rusconi, ndr) ha avuto bisogno di cure specializzate. Di fatto, comunque accompagnano, non fanno come il privato-privato che, quando raggiungi una certa età e quindi ne avresti più bisogno perché devi curarti di più, smettono di assisterti.

Perché diventi un cliente poco conveniente… Ma lei, professoressa, se posso permettermi, perché scelse la mutua Cesare Pozzo?

Ci sono arrivata attraverso un’amica, una collega di università. Tra l’altro io mi sono iscritta in un’epoca in cui non ne avevo assolutamente il bisogno, per cui per anni ho pagato senza ricevere niente dietro, ma che va bene così: è il principio delle assicurazioni. Sì, l’ho presa proprio perché comunque era di “Terzo settore”: non era una mutua che tentava di arricchirsi alle spese dei suoi mutuati. Non la conoscevo, infatti, perché nasce dai lavoratori delle ferrovie e quindi era lontana dalla mia storia personale: non ho neanche in famiglia che sia mai stata nelle ferrovie, quindi non l’avrei conosciuta se non mi fosse stata presentata. Però l’ha fatto una persona di cui mi fidavo e mi fidavo della scelta valoriale, non tanto della scelta di convenienza economica.

Se ne parla a Torino

Oggi, mercoledì 19 marzo, presenteremo il nuovo numero di VITA magazine Provate a fare senza da Toolbox co-working a Torino.
Vi aspettiamo alle 18,30 in via Montefeltro 2.

La foto di apertura è di Giacomo Longo / LaPresse

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